martedì, aprile 01, 2025

Perché la democrazia ha ancora bisogno di vivere nei partiti


“I cittadini non li si convince se non si dialoga con loro, se non se ne ascoltano i dubbi, se non si tiene conto delle loro domande e delle loro stesse risposte”. I padri costituenti gli dedicarono l’articolo 49 della Carta. Ora in un saggio il presidente emerito della Consulta ne rivendica l’attualità. Malgrado i social e i populismi

di GIULIANO AMATO 
Quello che è venuto accadendo negli scorsi anni è ben noto e quindi possiamo qui limitarci a evocarlo. Nella trasformazione dei partiti, che sono tornati a vivere prevalentemente nei palazzi del potere istituzionale (così come accadeva nelle democrazie elitarie dell’Ottocento), hanno giocato diversi fattori. Innanzitutto la sclerosi e le entropie degli stessi partiti, vittime e colpevoli di uno dei fenomeni più noti per tutte le organizzazione di “azione collettiva”; le quali nascono per la tutela dei rappresentati e dopo un po’ finiscono per occuparsi soprattutto degli interessi dei rappresentanti (così Mancur Olson, in un famoso libro del 1965, pubblicato in Italia dal Mulino nel 1983 con il titoloLa logica dell’azione collettiva). 


Poi l’individualizzazione delle nostre vite, che avviene prima con l’urbanizzazione dei piccoli nuclei familiari, poi anche sui luoghi di lavoro, con il tramonto del taylorismo e la riduzione dimensionale di molte imprese, favorita dalle tecnologie; il che erode molti dei fattori su cui erano costruite le identità collettive valorizzate dai partiti. 
Infine i cambiamenti epocali dei modi di comunicazione, con la televisione e poi il mondo digitale che subentrano al contatto diretto: si sta soli in casa e si viene raggiunti dai leader politici, con cui non parliamo più, ma che parlano a noi, e possiamo raggiungere, via social, chi noi vogliamo senza incontrare nessuno. 
Mettiamo insieme tutte queste cose e ci troviamo in un sistema completamente diverso: i leader si fanno sentire a distanza, ovviamente non dialogano e conoscono le reazioni che provocano attraverso i sondaggi e attraverso i comunicatori che li leggono e li interpretano. I cittadini passano da interlocutori a tifosi, o a favore o contro, e si illudono di partecipare scaricando sui social commenti molto spesso apodittici e spesso oltraggiosi; mentre c’è chi tiene dentro di sé le proprie valutazioni cercando di capire chi, ai vertici, le condivide o le contrasta. 
In un tale sistema capita che non si aggregano più i cittadini attraverso progetti sul futuro, ma cercando di dar loro ragione sulle loro reazioni presenti. Nascono così più facilmente aggregazioni contro che aggregazioni per, giacché ciò che più si coglie nei cittadini sono i malumori e le ansie per quanto viene accadendo e il modo per catturarne il consenso è quello di dichiararsi d’accordo con loro e di additare come nemici coloro a cui quelle ansie si possono retoricamente attribuire, si tratti delle élite (bersaglio il più comune), degli immigrati, della popolazione carceraria che riceve benefici penitenziari, dei transgender, degli omosessuali. 
Quella che viene chiamata “politica populista” è in genere un impasto di tutte queste cose. E in termini sistemici ciò comporta aggregazioni politiche che, in conformità allo schema amico/ nemico nel quale istintivamente si adagiano, tendono a radicalizzare le posizioni, si sottraggono al compromesso con gli altri, arrivano a deformare o a paralizzare le stesse procedure della democrazia parlamentare, la quale è tuttora concepita allo scopo di favorire il confronto e possibilmente l’incontro fra posizioni diverse. 
Di qui la fragilità attuale delle democrazie, di cui tanto si parla. Di qui la ricerca di rimedi, che vediamo il più delle volte orientata verso un rafforzamento della stabilità delle istituzioni politiche, che è certo un bene da perseguire, ma che difficilmente potrà realizzarsi se sotto tali istituzioni il sistema politico continua ad alimentare frantumazione, fratture, scelte e visioni sprovviste di futuro. 
È perciò a questo livello più basso che bisogna lavorare e se si lavora, non per passare a un regime autoritario, ma per rinvigorire la democrazia, allora non c’èche riprendere il filo della partecipazione politica. I regimi autoritari non ne hanno bisogno, perché preservano il loro presente e costruiscono il loro futuro attraverso la costrizione. Le democrazie possono fare l’una e l’altra cosa solo attraverso la convinzione e i cittadini non li si convince se non si dialoga con loro, se non se ne ascoltano i dubbi, se non si tiene conto, nelle risposte, delle loro domande e delle loro stesse risposte. Quello che facevano i partiti di una volta. 
Chi scrive non è affetto dalla retrotopia di cui giustamente diffidava Zygmunt Bauman. Al passato non si torna. Resta vero però che quanto è scritto nel nostro articolo 49 (della Costituzione, ndr) – e cioè che i cittadini concorrono a determinare la politica nazionale – è il pilone fondante della democrazia. Potrà non avvalersi della strumentazione di cui ci si è avvalsi in passato. 
Ma la democrazia non è più tale se non è in condizione di poggiare su di esso. 

La Repubblica, 1 aprile 2025

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