giovedì, aprile 10, 2025

Giovanni Burgio e la memoria della sinistra siciliana: “I comunisti prima del PD Sicilia 1982-2012 ” tra storia e testimonianza


Giuseppina Tesauro

Nel suo libro I comunisti prima del PD. Sicilia 1982-2012 (Ed. Istituto Poligrafico Europeo), Giovanni Burgio ricostruisce la storia recente del Partito Comunista in Sicilia, un’epoca segnata da profonde trasformazioni e da un vuoto informativo ancora irrisolto. Attraverso fonti orali e documenti dell’epoca, l’autore colma una lacuna nella storiografia contemporanea, restituendo al lettore il confronto tra le diverse anime della sinistra, il passaggio dal PCI al PD e le lotte intestine che hanno segnato questa evoluzione. Un’opera che non solo analizza il passato, ma si propone anche come strumento per comprendere il presente e il futuro della politica italiana.

  • Dottore Burgio, lei nel suo lavoro I comunisti prima del PD. Sicilia 1982-2012  (Ed.Istituto poligrafico europeo) ha trattato la storia recente del PCI in Sicilia, un periodo che è stato segnato da transizioni complesse. Quali sono state le principali difficoltà che ha riscontrato nel ricostruire questi eventi e come ha superato questo vuoto informativo che lei stesso menziona? 

Il vuoto dell’informazione di questi ultimi decenni della storia riguarda non solo il Partito Comunista, ma in genere tutta la storia contemporanea siciliana degli ultimi 30/40 anni, della quale si ha un’estrema difficoltà a trovare  fonti bibliografiche autorevoli, tranne che nei giornali cioè i quotidiani dell’epoca. Questi ultimi, per il lavoro che ho svolto, sono stati essenziali e fondamentali, quasi le uniche notizie vere e proprie insieme a pochissimi libri. Ma io come metodo di ricerca già avevo scelto  la chiave delle fonti orali, così come avevo fatto in precedenza per  il libro su Pio La Torre, poiché si rivelano fondamentali i racconti dei protagonisti che hanno vissuto quei momenti, quindi fonti dirette autentiche  nel senso della sostanza, perché potrebbe capitare qualche lieve imprecisione per esempio nel rapportare la data  però gli eventi che vengono raccontati sono sempre attendibili. Pe cui la difficoltà maggiore è stata senz’altro quella delle fonti scritte alla  quale ho sopperito attraverso queste testimonianze dei diretti protagonisti, anche se dobbiamo fare i conti con la loro età, infatti purtroppo alcuni di loro ormai ci hanno lasciato. Questo libro dunque ci ha dato anche la possibilità di mettere per iscritto e raccogliere le testimonianze dirette di  Angela Botteri, Franco Padrut, Nino Mannino, per citarne alcuni.

  •  Il suo libro è anche una raccolta di testimonianze orali di personaggi chiave della storia del PCI. Come si struttura un lavoro di questo tipo?

Si parte sempre da una intervista registrata, che è qualcosa di eccezionale per la ricchezza dei contenuti.  Ma ci si rende conto che  le interviste sono molto lunghe, in genere non durano mai meno di due o tre ore e chiaramente  si deve fare una selezione su tutto il materiale raccolto, quindi  si scelgono  le parti essenziali che sono da pubblicare, ma  la parte fondamentale dell’intervista è  resa come è nell’originale.

  • Un lavoro come questo dunque rappresenta  un contributo  per il futuro? Tra qualche anno, i giovani avranno bisogno di confrontarsi con una fonte bibliografica che colmi il vuoto esistente su questa parte di storia contemporanea, vuoto che oggi manca

Sì, infatti questo è sempre stato il mio intento, ed è l’obiettivo che fin dall’inizio ho prospettato all’editore (Dario Carnevale ndr.): scrivere un libro di storia contemporanea che potesse essere utile anche in futuro. Su questo argomento, infatti, non esiste praticamente nulla di scritto, e gli stessi protagonisti non erano inclini a mettere nero su bianco le proprie memorie. Un vero peccato, considerando che ciascuno di loro rappresenta – o ha rappresentato – una fonte inesauribile di informazioni.

La difficoltà principale, però, risiede proprio qui: c’è sempre un conflitto in agguato. Io fornisco una versione dei fatti, un altro ne propone una diversa, e soprattutto quando si parla di storie legate ai partiti, emerge una lotta continua che non si placa nemmeno a distanza di 60 o 70 anni. Anzi, direi che una delle maggiori sfide è stata proprio questa: cercare di mettere a confronto le varie prospettive. All’interno dello stesso partito, ho voluto raccogliere e riportare le opinioni di tutti, proprio per lasciare che sia il lettore a farsi un’idea. Perché il compito dello studioso, dello storico, del cronista è proprio questo: restituire la pluralità dei punti di vista dei protagonisti, offrendo due, tre, quattro versioni dei fatti.

Nell’introduzione scrivevo che, purtroppo, le fonti informative sono spesso contaminate da atteggiamenti di parte, esclusioni, pregiudizi e ideologie. Io, invece, ho cercato – e lo ribadisco – di mantenere un equilibrio. Stiamo parlando di un partito al cui interno sono emerse profonde divergenze e lotte intestine, e questa è stata una grande difficoltà. Non solo durante la stesura del libro, ma anche adesso, nelle presentazioni, e probabilmente anche in futuro: molti dirigenti e militanti delle varie organizzazioni politiche coinvolte continueranno a dire “no, non è andata così“, oppure “quella cosa è ricordata male“, o ancora “questo è sbagliato“. È normale, perché il conflitto esiste ed è evidente.

Negli ultimi decenni, poi, questo scontro si è fatto ancora più aspro. Un tempo era di natura ideologica e politica, oggi invece è diventato soprattutto personale. Negli ultimi trent’anni, nella cosiddetta Seconda Repubblica, abbiamo assistito a un’accentuazione dell’astiosità e della rivalità interna, al punto che, nella fase più recente della trasformazione del partito – da Partito Comunista a PDS, DS e infine Partito Democratico – si è perso il senso dell’organizzazione politica per lasciare spazio a un sistema dominato da correnti, gruppi, clientele, impegnati in lotte interne perfino più feroci di quelle con l’esterno.

E direi che, purtroppo, negli ultimi mesi si è arrivati quasi allo scontro fisico all’interno dello stesso partito;  nei vari congressi e dibattiti, alcuni sono stati protagonisti di confronti che a volte sono andati ben oltre il piano personale, sfociando quasi nel fisico. Perché la competizione è molto sentita, e la lotta per il potere è forte. È normale – attenzione – perché i partiti politici esistono per accedere al potere: questa è anche la natura della politica.

  •  Dottore  Burgio, vorrei chiederle una puntualizzazione: questo vuoto informativo che riguarda la storia recente, crede che sia limitato esclusivamente al Partito Comunista o alla Sicilia, oppure ritiene che si tratti di una mancanza di attenzione storica più generale nei confronti di questo periodo della politica italiana?

Attenzione: non intendo assolutamente  dire che non ci sia attenzione storica, ad esempio all’Università di Palermo, ci sono diversi studiosi e storici che stanno affrontando uno studio  proprio su questi anni. Quello che volevo sottolineare è che la storia dei partiti – nello specifico – è forse un po’ meno trattata. Non parlavo di storia in senso generale, ma proprio della storia delle forze politiche, della loro evoluzione e delle dinamiche interne.

Devo dire, però, che recentemente ho notato un cambiamento: qualche esponente, soprattutto dell’ex Democrazia Cristiana, dell’area moderata o anche della destra, ha iniziato a scrivere qualcosa su quegli anni. Si tratta spesso di autobiografie o di racconti personali, pubblicati negli ultimi quattro o cinque anni, in cui ognuno propone la propria visione, il proprio vissuto. Sono senza dubbio contributi importanti, ma si tratta pur sempre di testi scritti da protagonisti politici, non da studiosi esterni o da storici in senso stretto.

La difficoltà nello scrivere su questi temi, secondo me, nasce anche dal fatto che li consideriamo ancora troppo vicini, troppo “vivi”. Li abbiamo vissuti in prima persona, li stiamo ancora vivendo in qualche modo, e quindi tendiamo a darli per scontati. Non pensiamo che un domani, chi verrà dopo di noi, potrebbe non ricordare, non sapere, e non avere gli strumenti per documentarsi correttamente su ciò che è accaduto.

In questo senso, le fonti giornalistiche sono fondamentali: aiutano a ricostruire giorno per giorno gli avvenimenti. Ma oggi, purtroppo, scrivere – e fare storia – è diventato ancora più difficile. Nessuno vuole più prendersi il tempo per scrivere davvero, in modo approfondito, anche perché con i social e internet è cambiato tutto. È complicato produrre testi accurati, precisi, articolati: ormai domina la brevità. E già prima i quotidiani cartacei in Italia venivano letti poco, ma oggi siamo quasi a zero. Le edicole chiudono, le testate spariscono.

Non c’è più l’abitudine a informarsi attraverso la parola scritta. Tutto passa per il web, dove le notizie scorrono e svaniscono nel giro di poche ore. Certo, restano in rete, e si possono ritrovare con le parole chiave, ma la gente non è più abituata a leggere in profondità. E tutto questo finisce per scoraggiare sia la scrittura che la lettura seria, lo studio dei testi. È una delle difficoltà più evidenti del nostro tempo.

  • Uno degli aspetti salienti del suo libro è il confronto tra il PCI riformista e la Sinistra radicale. Quali erano le principali divergenze tra questi due gruppi ?

La sinistra, quella che in qualche modo fa riferimento al vecchio Partito Comunista, ha scelto fin dalla Seconda guerra mondiale — e poi con la svolta di Salerno — una linea moderata, costituzionale e democratica, rinunciando sostanzialmente alla rivoluzione. Dall’altra parte, invece, a partire dal ’68, e soprattutto con l’organizzazione della nuova sinistra, c’era chi rivendicava ancora un sistema di lotta politica radicale: bisognava intraprendere la lotta armata, abbattere lo Stato capitalista, ricorrere alle armi, alla violenza.

Dal ’68 in poi, questo è stato il nucleo del conflitto: da un lato i partiti istituzionali, che si presentavano regolarmente alle elezioni, dall’altro una sinistra rivoluzionaria, che pure si è affacciata al voto negli anni ’70 e anche negli anni ’80, ma sempre mantenendo una profonda divergenza ideologica. Una divergenza che, in parte, resiste ancora oggi. Esiste infatti una componente moderata, la cosiddetta riformista, che crede fermamente nel cambiamento attraverso le istituzioni riconosciute. All’opposto, la sinistra estrema — spesso chiamata “radicale” — conserva una matrice di sovversione, di ribaltamento dell’ordine statuale. Anche se oggi questo non viene più dichiarato apertamente, tra le sue componenti dirigenti e militanti resta una profonda avversione verso lo Stato.

Questo si riflette con particolare evidenza nel modo in cui si affronta la questione mafiosa. Ancora oggi, in cortei e convegni, si ripete lo slogan “la mafia è dentro lo Stato”, un’affermazione che implica un concetto forte: che lo Stato debba essere sovvertito, che lo Stato sia ancora mafioso. Ma non è più così da trent’anni. Era vero — lo sappiamo — fino agli anni ’80, e poi fino alla stagione delle stragi, ma da allora molto è cambiato. Questo tipo di slogan, ancora oggi ripetuto, proviene da chi è fermo, ideologicamente, a una visione di 30 o 40 anni fa, che identifica lo Stato solo e unicamente con il capitalismo, da abbattere in toto, perché considerato irrimediabilmente corrotto e inquinato.

Di contro, c’è una parte della sinistra, quella riformista, che si è assunta — come dico più volte nel libro — responsabilità di governo, anche in momenti difficili e controversi. Questo ha avuto un costo: certo, si è “sporcata le mani”, ha perso consensi, ma ha scelto una linea istituzionale. E così si è acuita la frattura fra due visioni inconciliabili.

Il Partito Democratico attuale, in fondo, riflette proprio questa spaccatura. Lo dimostra, ad esempio, il recente voto sul riarmo europeo e la frattura interna al gruppo del Partito Democratico europeo. L’attuale segreteria, posizionata più a sinistra — non direi radicale, ma sicuramente più spinta — si scontra con la componente storica del partito, quella che, nel corso degli anni e soprattutto dopo la fine del PCI, ha guidato la trasformazione verso un soggetto politico moderato. Quella stessa componente oggi si trova in opposizione alla linea della segreteria. Questo è, a mio avviso, il dramma politico del PD: cercare di tenere insieme due anime tanto diverse all’interno dello stesso partito.

Ed è paradossale che questo avvenga proprio tra gli eredi del PCI. Ma ormai siamo più nel campo della cronaca politica che della storia, anche se, in fondo, si tratta pur sempre del vecchio scontro tra riformisti e massimalisti.

Il discorso, naturalmente, sarebbe molto lungo. Anche perché, per chi come noi ha vissuto questa storia, ne ha fatto parte e ne condivide ancora le idee, è una questione profonda, che tocca da vicino. E poi, diciamolo, ormai ci siamo anche un po’ stancati di sentirci dire che “non è rimasto nulla” di ciò che eravamo. È come se qualcuno stesse tentando di negarci un’identità storica. E tutto ciò di cui stiamo parlando qui, adesso, è proprio quell’identità

  • Quindi secondo lei, come si è manifestata questa frattura  nella storia politica recente?

La differenza tra la sinistra riformista e quella massimalista, o radicale, è un nodo centrale. Nel libro lo affronto attraverso alcuni passaggi chiave: i governi Capodicasa, i governi Campione, i governi Lombardo. Sono esempi concreti che permettono quasi di “toccare con mano” la distinzione tra una sinistra che, in determinati momenti storici, si assume la responsabilità di governare anche insieme a forze moderate — e un’estrema sinistra che, invece, rifiuta per principio questo tipo di coinvolgimento, vedendolo come una forma di compromesso inaccettabile.

Nel libro si ricostruisce la storia di questi governi, spesso bollati come “compromessi”, “inciuci“, o addirittura come cedimenti al nemico. Ma gli intervistati che hanno scelto quella linea di responsabilità politica offrono invece una lettura completamente diversa. Da un lato, c’è chi critica duramente queste esperienze dall’esterno, adottando una posizione purista, quasi sempre radicale. Dall’altro, ci sono dirigenti, militanti, e membri degli organismi di partito che raccontano la complessità di quelle scelte, il peso delle decisioni assunte, e i contesti in cui sono maturate.

Il problema è che spesso non si dà voce a questa seconda narrazione. Anche nei dibattiti televisivi attuali succede la stessa cosa: chi urla di più ottiene spazio, mentre chi prova ad articolare un ragionamento, a spiegare una linea politica nel merito, viene interrotto o tagliato dal conduttore. Il confronto viene sostituito dalla polemica, dall’alzare la voce. Questo approccio impoverisce il dibattito pubblico e non aiuta a comprendere davvero le differenze — profonde — che attraversano la sinistra.

  • Fino a qualche anno fa, il partito era spesso identificato con un leader che incarnava i suoi ideali e aveva la capacità di trascinare, di infiammare le masse. Pensando al Partito Comunista degli anni passati, ad esempio, i nomi di Togliatti, di Berlinguer  sono quelli che vengono subito in mente. Cosa è successo? Perché questa forza carismatica è andata persa e nessuno è riuscito a raccogliere veramente quella eredità?

È cambiato completamente il sistema della comunicazione. Ai tempi di Berlinguer e Occhetto, fino a tutto quel periodo, la politica si faceva ancora con i comizi in piazza. Poi, a partire dagli anni ’90, la televisione è diventata il principale mezzo di comunicazione, e da lì in poi tutto si è trasformato. Le organizzazioni politiche, che prima erano organismi collettivi articolati — con i loro organi comunali, provinciali, regionali, nazionali, e con settori ben definiti — hanno iniziato a lasciare spazio alla figura del singolo: il leader, il segretario, il ministro, il volto in TV.

Il mondo della comunicazione, insomma, ha subito un cambiamento radicale negli anni ’90, e questo ha portato con sé un processo di forte personalizzazione della politica. La struttura collettiva si è sgretolata, gli organismi di partito hanno progressivamente perso peso e rilevanza. Questo aspetto, nel libro, lo evidenzio chiaramente, ed è confermato dagli stessi intervistati, che hanno vissuto in prima persona il passaggio dal vecchio Partito Comunista — con le sue sezioni, i suoi segretari locali e provinciali — a una fase in cui tutto è diventato scontro tra persone.

La politica si è trasformata in una lotta tra individui, acuita dal sistema delle preferenze, che ha ulteriormente incentivato questa deriva personalistica. Il confronto non è più sui contenuti, sulle idee, sulle linee politiche da seguire, ma su chi comanda, su chi è più vicino al leader di turno. È diventato uno scontro fratricida, in cui l’elemento personale prevale su quello politico. Le correnti interne ai partiti esauriscono ormai tutto il dibattito all’interno della logica congressuale: chi prende il potere, chi piazza i propri uomini.

Tutto questo avviene con l’avvento della Seconda Repubblica e con l’introduzione del sistema maggioritario, che non è solo una questione tecnica, ma ha anche una forte incidenza culturale e comunicativa. I mezzi di comunicazione di massa giocano un ruolo cruciale, ma è il modello stesso a cambiare: la forma partito, come l’abbiamo conosciuta, scompare. Le scuole di partito, le sezioni, i luoghi del confronto politico non ci sono più. Dal 1992 in poi, con la spinta del maggioritario e con l’ondata di Mani Pulite, i vecchi partiti vengono cancellati o svuotati, e nascono formazioni politiche sempre più personalistiche.

La selezione della classe dirigente avviene ormai in base alla vicinanza al segretario, ed è quest’ultimo a decidere chi sarà candidato, spesso ignorando i territori. In Sicilia, per esempio, ci ritroviamo candidati provenienti dal Piemonte, dalla Toscana, dalla Liguria — persone che non hanno alcun legame con il territorio. E allora, giustamente, la gente si chiede: perché dovremmo votarli?

Questo genera un distacco sempre più ampio tra elettori ed eletti, alimenta l’astensionismo e la disaffezione. È un mondo completamente cambiato. Un vero e proprio abisso rispetto al passato. Il titolo del libro, Dai comunisti al PD, riassume bene questo passaggio: si è passati da un sistema in cui la lotta politica si svolgeva all’interno di organizzazioni riconoscibili e strutturate, a un sistema dove tutto è frammentato, personalizzato, dominato da logiche individualistiche e mediatiche.


L’Epoca culturale, Apr 7, 2025

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