di Giuseppe Savagnone
Parole che avvelenano il senso di un viaggio
Il lettore ha probabilmente avuto un sobbalzo leggendo, sul «Corriere della Sera» online di mercoledì 9 aprile, subito sotto il titolo a caratteri di scatola: «“Mi baciano il cu…”: la frase choc di Trump sui Paesi che vogliono negoziare», il sottotitolo: «Meloni e l’incontro con Trump: “Porterò il mio contributo”».
Evidentemente si è trattato solo di un involontario incidente tipografico. Ma dietro di esso c’è la cruda realtà di una situazione internazionale in cui – al di là dei termini coloriti usati dal presidente americano – si può solo scegliere tra uno scontro, perduto in partenza, con la maggiore potenza mondiale, e una umiliante sottomissione all’arroganza di chi comunque per i prossimi quattro anni ha avuto dal popolo americano il mandato di governarla.
Volgarità a parte, le scioccanti parole del Tycoon sul suo modo di intendere la relazione con gli altri capi di governo evidenziano che quelli che egli è disposto ad accettare non sono negoziati, ma atti di vassallaggio.
La differenza è sostanziale: a negoziare sono soggetti di pari dignità, che cercano di ascoltarsi a vicenda nel rispetto delle rispettive esigenze; mentre il vassallo rinunzia a far valere il proprio punto di vista e può solo sperare nella benevolenza del suo interlocutore.
In quest’ottica, inevitabilmente, finisce per collocarsi anche l’annunciato viaggio di Giorgia Meloni negli Stati Uniti, motivata inizialmente dall’urgenza di discutere dei dazi e confermata anche dopo la loro sospensione.
La nostra premer è da sempre una estimatrice del Tycoon. Senza arrivare al tifo sfrenato del suo vice Salvini, si è chiaramente dissociata dall’ondata di critiche che prima e soprattutto dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca hanno bollato le sue posizioni come espressione di un sovranismo incompatibile con i diritti delle persone e degli Stati.
Pubblicamente ha difeso la «ragionevolezza» delle posizioni trumpiane, anche quando erano in chiaro contrasto col diritto internazionale, come nel caso della Groenlandia. Ed è stata chiara la sua simpatia per la linea dura del Tycoon nei confronti degli immigrati, in cui non poteva del resto non riconoscersi. Così come, da parte sua, Trump ha più volte lodato la Meloni, esprimendole la sua stima e la sua simpatia, indicando che per lui, insomma, è un’amica.
Dopo quello che il presidente ha dichiarato, però, si capisce in che senso sia possibile essere “amici” dell’inquilino della Casa Bianca. Sui giornali di destra la sua uscita è stata salutata come un atto liberatorio di autenticità: «Finalmente un politico che dice le cose come stanno.
Trump, con quel suo elegantissimo “Questi Paesi ci chiamano, mi baciano il culo, stanno morendo dal desiderio di fare un accordo” ha il merito di fare a pezzi in una sola frase tutti i trattati di diplomazia ipocrita. Altro che gaffe, Trump ci ha appena spiegato cos’è davvero il diritto internazionale: la legge del più forte, detta senza fronzoli. Nessuna ipocrisia, solo la verità nuda e cruda: chi comanda detta le regole, gli altri si adeguano. E stavolta, dice lui, tocca agli americani fregare gli altri. Chapeau alla sincerità» (Giorgio Carta, in www.nicolaporro.it).
Forse, però, chi ha scritto queste parole non ha tenuto abbastanza conto della loro ricaduta su ciò che andrà a fare, nel suo incontro con Trump, la leader della nostra destra nazionale, di cui questi giornali sono accesi sostenitori.
Una drammatica alternativa
Ma il problema va ben al di là di questa particolare vicenda. Ormai la politica internazionale sembra imporre una scelta tra la libertà e la sopravvivenza. Chi non accetta di baciare il cu… di Trump e di subire docilmente i suoi umori, deve prepararsi all’emarginazione economica e politica. Anche politica: ne è stata un esempio la vicenda che ha visto il presidente ucraino Zelenskyi – aggredito, maltrattato e platealmente gettato fuori dalla Casa Bianca – costretto a scrivere una lettera di piena sottomissione alla volontà di chi lo aveva poche ore prima pubblicamente umiliato, rinunciando senza riserve alla propria linea e, soprattutto, alla propria dignità, pur di non essere abbandonato alle mire di Putin.
La stessa Europa continua disperatamente a far finta di non esser stata emarginata e insultata, con i fatti e le parole, con la clamorosa esclusione dai negoziati per la pace in Ucraina, dove si discuteva di una guerra in corso sul suo territorio e a cui gli Stati europei, compreso il Regno Unito (che non fa parte della UE), hanno dato in questi tre anni un contributo finanziario e militare enorme.
Per non parlare della definizione di «parassiti», appioppata agli europei dal vicepresidente Vance in una chat riservata, ma poi ripresa e ribadita pubblicamente da Donald Trump. Eroicamente da parte dei «parassiti» si continua a ribadire la volontà di tenere aperta la porta aperta al dialogo con l’arrogante ex amico americano, magari stigmatizzando – coma ha fatto la Meloni – chi «alimenta una narrazione diversa, tentando di scavare un solco tra le due sponde dell’Atlantico».
Questa la situazione. Stando agli estimatori di Trump, essa non fa che rispecchiare, senza ipocriti infingimenti, la vera natura della politica. A governarla non può che essere «la legge del più forte: chi comanda detta le regole, gli altri si adeguano». Nessun limite etico, nessun vincolo umano di rispetto reciproco e di amicizia. Solo la ricerca del proprio interesse nazionale. Come il presidente americano sta facendo.
La prova dei fatti
Forse è il caso di confrontare questa visione, che viene presentata come l’unica “realistica”, con i fatti. Una prima considerazione riguarda la sua possibilità di valere come filosofia a cui ogni Stato dovrebbe ispirarsi.
Le scelte di Trump stanno evidenziando oltre ogni possibile dubbio che i sovranismi si escludono a vicenda. Chi agisce in nome dello slogan «America First», prima l’America, non può collaborare con chi mette in primo piano, con la stessa assolutezza, gli interessi del proprio paese. E chi, come i partiti di destra oggi al governo in Italia, ha come motto «prima l’Italia», non ha nessun motivo di festeggiare i successi dei sovranisti di altre nazioni.
Il sovranismo infatti, per la sua stessa logica, esclude quella visione inclusiva del bene comune secondo cui tutti possono crescere grazie a una reciproca cooperazione. Il principio a cui ci si ispira è che il bene degli altri e il proprio sono a somma zero: l’incremento dell’uno comporta sempre, inevitabilmente, la diminuzione dell’altro e viceversa.
Non sono un profeta, ma già il 7 novembre dell’anno scorso, commentando l’entusiastica reazione di Salvini per la vittoria elettorale di Trump, scrivevo: «Come i ricci, i cui aculei sono una buona difesa verso gli altri animali, ma escludono un reciproco abbraccio, i sovranisti non possono dare luogo a un fronte veramente comune e tra due Stati governati da loro ci potrà essere solo competizione.
E di fatto, l’esultanza del nostro vice-premier dovrà presto fare i conti col fatto che la linea dell’America di Trump, protezionista e polemica verso l’Europa, non coincide affatto con gli interessi dell’Italia, per quanto il nostro governo abbia per molti versi una matrice sovranista, anzi è destinata a danneggiarli gravemente».
È ciò che abbiamo osservato all’inizio a proposito della incapacità di Trump di avere amici e sull’alternativa inevitabile, nei rapporti con gli Stati Uniti di oggi, tra sottomissione e guerra. Il massimo che gli altri Stati, anche quelli sovranisti – a cominciare dall’Italia – , potranno sperare, è un rapporto di vassallaggio, che non corrisponde certo a quel ritorno a quel prestigio internazionale promesso dalla Meloni in campagna elettorale.
Una seconda considerazione si impone, guardando la realtà di ciò che sta accadendo. La totale spregiudicatezza di Trump, il suo rifiuto di ogni limite etico, il suo delirio di onnipotenza, che lo spinge a disporre del destino pubblico e privato degli altri come in un gioco, si sta traducendo in un disastro.
Aveva promesso di liquidare in pochi giorni le due guerre di Ucraina e di Gaza, riportando finalmente la pace in Europa e nel Medio Oriente. I fatti dicono che in entrambi i casi si registra un inasprimento dei combattimenti e l’allontanamento di ogni prospettiva di tregua.
Il contributo effettivo del presidente americano, dopo i proclami messianici, finora è stato, in realtà, la rivendicazione di una cessione, da parte del governo ucraino, dei diritti di sfruttamento delle risorse minerarie (le “terre rare”) di quel paese, imponendogli una specie di colonialismo; e il progetto di deportare i due milioni di palestinesi abitanti a Gaza, per costruire sulla Striscia un grande resort di lusso.
Aveva annunciato all’America l’inizio di una «età dell’oro». E in questa direzione andava, a suo dire, la decisione di imporre dazi fortissimi (i più alti dal tempo della “grande depressione” di inizio Novecento) alle merci esportate negli Stati Uniti dagli altri paesi, anche amici ma è bastato l’annunzio per far precipitare le borse di tutto il mondo – prima fra tutte quella americana di Wall Street – in un precipizio che è costato la perdita somme enormi di denaro.
La sola Wall Street ha bruciato in quattro giorni migliaia di miliardi di dollari, costringendo il Tycoon a un brusco voltafaccia. Ma anche dopo la sospensione dei dazi, la borsa americana, pur avendo avuto un inevitabile fase si euforia e di rialzo, sta continuando a scendere.
Dicono gli analisti che la causa ultima è l’inaffidabilità dello stesso Trump. Nessuno può più contare su previsioni ragionevoli. La stessa origine ha la perdita di valore del dollaro, a cui gli investitori preferiscono un bene-rifugio sicuro come l’oro.
Per non parlare dei danni enormi che i dazi – anche quelli mantenuti, anzi ulteriormente esasperati, nei confronti della Cina – hanno prodotto alle aziende americane che, come la Nike, hanno delocalizzato le loro filiere produttive o comunque sono fortemente interconnesse con la Cina per la fornitura di pezzi di ricambio.
La verità è che, in un mondo dove ormai la globalizzazione non è una moda, ma una necessità, il sovranismo rivela – grazie alla versione compiuta datane da Trump – tutto il suo anacronismo.
Infine – ma non è il danno minore – in pochissimi mesi gli Stati Uniti hanno perduto un’immagine internazionale che aveva costruito lungo il corso di tutto il secolo scorso, già a partire dalla prima guerra mondiale, e che aveva fatto di questo paese, relativamente giovane, un punto di riferimento per tutto l’Occidente. Oggi la nuova identità conferitale dal suo nuovo presidente è diventata un triste simbolo di potere arbitrario e di cupidigia senza scrupoli.
Più in generale, ciò a cui assistiamo insegna che, se chi è più forte pretende di usare la propria potenza per schiacciare gli altri o almeno subordinarli a sé, invece di collaborare con loro per un risultato che premia le esigenze di tutti, alla fine non solo non ci guadagna, ma è penalizzato più di tutti. L’esperienza di questi giorni ci dice che, con buona pace dei “realisti” e del loro cinismo – l’etica non è un lusso della politica e tanto meno un velo ipocrita che ne maschera il vero dinamismo, ma una condizione essenziale per il suo buon funzionamento.
Tuttavia.eu, 11 Aprile 2025
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