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Alfio Patti |
«Vogghiu cògghiri, / comu na saccurafa, / tutti ’i punti persi / di ’sta vita ca si scusi / jornu dopu jornu». Con questi versi, tratti dalla raccolta “Nudi e crudi” ho il piacere di introdurre il cantastorie-poeta Alfio Patti. Il cantastorie fa una dichiarazione sulla poetica che può essere considerata manifesto di tutto il canto che svolge nella sua poesia.
«Ma rammendare cosa? – si chiede il critico Mario Grasso – Buttitta punta sul vocabolario del dialetto che va perdendo le sue corde. Patti invece si presenta con l’ago in mano, per cucire la tela del sacco grande dell’esistenza.»
Ho conosciuto Alfio Patti di cui avevo sentito molto parlare in Sicilia, al “Giardino dei giusti” di Palermo in una serata indimenticabile organizzata da Pino Apprendi, dedicata al cantastorie Otello Profazio. Alfio Patti, giornalista pubblicista, studioso poeta e cantastorie, laureato in Pedagogia, è Autore di diversi testi di poesia, saggistica e narrativa che celebrano, promuovono e valorizzano la tradizione, la lingua e la storia della Sicilia. Alla radio nazionale nel programma Mediterradio
condotto da Adelaide Costa, Vito Biolchini, Paulantone Squarcini andato in onda la settimana scorsa, ha dichiarato: “Il patrimonio della cultura siciliana non possiamo perderlo, nel dialetto c’è tutta la nostra saggezza. La legge regionale n. 9/2011 sull’insegnamento del dialetto nelle scuole viene incontro ad una nobile esigenza dei siciliani”. Patti è inserito nel Registro delle eredità immateriali della Sicilia. Le sue passioni nel tempo libero sono: lo studio, la scrittura e il canto che rappresentano il suo lavoro. Ama molto viaggiare. Ha sposato una donna che ama viaggiare anche lei e insieme hanno girato mezzo mondo. Conoscere le terre del pianeta dovrebbe essere un diritto di ogni uomo. Siamo venuti al mondo (e siamo stati fortunati) per conoscere, vedere, capire e sentire. In ogni angolo del mondo pare vi sia nascosto Dio e viaggiare per il mondo è un pò come viaggiare dentro se stessi. Siamo sempre alla ricerca di qualcosa. Peccato che la vita sia breve e il tempo non è bastevole per fare tutto. Ma andiamo a conoscere Alfio Patti da vicino…-Ti hanno definito l’aedo dell’Etna, cosa vuol dire?
L’aedo è un cantore di argomento epico, Omero fu l’aedo per antonomasia. Non mi sono mai definito un vero cantastorie ma un cantore sì, dal momento che canto e cuntu la mia terra con argomenti e con stili vecchi e nuovi. Ad apostrofarmi così fu Franco Di Mare, il noto giornalista Rai, che introducendomi al pubblico in una serata di gala a Palazzo Biscari di Catania sottolineò la mia provenienza da sotto il vulcano siciliano e mi definì “l’aedo dell’Etna”. Da allora questo è diventato il mio segno distintivo.
-Puoi spiegare questa affermazione “ Iu mangiu poesia”?
“Mangiari puisia”, nutrirsene, significa crescere a pane e versi. È un pò quello che ho fatto per tutta la vita, leggendo e studiando poeti colti e popolari siciliani (oltre ai grandi italiani e stranieri), dal XIII secolo ai nostri giorni e, attraversando le loto vite, mi sono arricchito. Sento di essere molto più ricco di tanti altri che si sono fermati ad auto-nutrirsi solo della loro poesia. È chiaro che una volta digerita e metabolizzata sono diventato anch’io un “contagiatore” di poesia.
-Quali sono le ferite che non si sanano?
«’A puisia, / pumata ppi firiti ca non sananu, / mâ passu câ manu ritta / e ccu chidda manca. / Mi ’mpùrparu di nenti / e fazzu finta can nun haiu caputu.» da: Sugnu seriamenti preoccupatu – “Cca sugnu”, 2012.
– Può la poesia cambiare le cose e gli uomini?
Il poeta Wystan Hugh Auden diceva che con la sua poesia non era riuscito a salvare nemmeno un ebreo dallo sterminio operato dai nazisti. Oggi, come ieri, assistiamo agli stessi orrori del passato perpetrati davanti ai nostri occhi e nessuno grida più. Il poeta, sempre alla ricerca della verità e della giustizia, spalma questa pomata che è la poesia, ma le ferite non sanano ancora.
-Cosa è la Sicilia, come era quella contadina, zolfatara e dei pescatori, come è diventata oggi?
La Sicilia è un’antica nazione. E’ un diamante staccato dalla corona di Dio, un bordello vivente. È canti e sballo di movida; è sirene spiegate e colpi di pistola. È fuoco vivo di lava e tremore di terra e di paura. Al suo interno vi è un mondo fatto di fatica, di duro lavoro, di rassegnazione e di spirtizza per aggirare gli ostacoli che la vita ha sempre posto alla povera gente. Nel mondo contadino, in quello dei pescatori e degli zolfatari ha trovato posto tanta filosofia e poesia. Il siciliano ha capito, nonostante le tante ingiustizie subite nei secoli, che “chiù dugnu e chiù sugnu”, cioè che noi siamo ciò che doniamo. La Sicilia più è stata defraudata dai governi di turno più ha dato, così facendo ha resistito alla sua possibile scomparsa. Oggi vedo la Sicilia come una bella donna addormentata e al tempo stesso caiorda, incapace di sentire i propri figli che la implorano affinché si svegli perché non c’è più tempo.
-Ci sono ancora i cantastorie, cosa cantano ai giorni nostri?
Ci sono ancora e secondo me ci saranno sempre. Nel tempo si sono trasformati, ma rimangono artisti che scrivono le loro storie in versi, usano il caratteristico classico cartellone, cantano con l’ausilio di una chitarra. Ci sono quelli che rimarcano le melodie tipiche del passato, molti hanno dato una svolta cantando storie nuove e più brevi (la gente non ha tempo per ascoltare). A San Gregorio di Catania da otto anni si tiene il “Festival dei cantastorie – accorato canto di Sicilia” da me organizzato e interamente finanziato dal Comune. In questi anni sono passati 23 artisti e fra questi anche qualche folk singer. Ho scoperto delle belle realtà in tutta la Sicilia compreso un giovane cantastorie Orazio Fusto, che esordì al Festival all’età di 13 anni. La storia continua e mi ritengo soddisfatto per la qualità che veicola oggi in Sicilia questo Festival.
-Come si manifesta il tuo impegno civile nelle scuole?
Oggi, grazie alla legge regionale n. 9/2011, l’ingresso nelle scuole è più facilitato. Il pregiudizio nei confronti della lingua siciliana comincia a sgretolarsi e con la chitarra, le mie leggende, le storie vecchie e nuove contribuisco a far conoscere la nostra cultura identitaria applicando, ormai, piani didattici di sicuro successo. I bambini e i ragazzi sono affascinati da questo mondo siciliano. Entro in classe con il cartellone, faccio vedere e toccare loro il marranzano e poi comincio a spiegare e cantare fino al suono della campanella. Siamo solo all’inizio, dobbiamo conquistare ancora le mamme, gli insegnanti e i dirigenti scolastici affinchè finalmente questo pregiudizio cada del tutto.
– Mi puoi parlare di Orazio Strano e degli altri cantastorie che hai conosciuto nella tua vita?
Vivendo a San Gregorio, dove sono nato, ho conosciuto Orazio Strano che ogni anno veniva il lunedì di Pasqua per la fiera del bestiame a Piano Immacolata. Si metteva sempre al solito posto. Lui era il cantastorie incontrastato. Solo una volta Cicciu Rinzino da Paternò osò affiancarsi poco distante da lui, ottenne una clamorosa sconfitta: Orazio Strano era veramente straordinario. Passando davanti alla sua 600 rimanevo rapito da quella voce singolare, antica, liberatoria di un canto fenicio. Venivo attratto da quella che in psicologia si chiama “linea di tendenza”. Non sapevo che crescendo avrei abbracciato la chitarra e avrei girato la Sicilia e il mondo per raccontare la mia terra cantando. Abbracciai questo mondo ma non sposai lo stile antico di Strano, fui affascinato, invece da quello più moderno di Nonò Salamone che considero la chiave di volta tra il passato e il moderno.
-Ho letto che hai frequentato l’Università dei barbieri, che ho frequentato anch’io insieme al fraterno amico Antonio Zarcone, quella dei saloni da barba. Cosa mi puoi raccontare di questo mondo perduto?
Non sono un musicista di conservatorio ma un sunaturi, ne vado fiero perché così erano gli aedi e i cantastorie. Grazie a mio padre che suonava la chitarra in un gruppo spontaneo da salone da barba imparai gli accordi necessari per poter cantare gli altri e poi le mie cose. La musica dei Saloni era particolare, fatta di mazurche, valzer, tanghi, tarantelle, anche foxtrot. Io non uso, infatti il barrè, per me il “sol settima” è “la seconda di Do”. Il salone da barba era una grande palestra, non solo per la musica ma per la vita, a Natale si regalavano i calendarietti profumati con le donne in costume. Al suo interno di parlava di tutto, della vita, delle donne, di politica, ma soprattutto si parlava in siciliano, nei termini e nel pensiero.
– Qual è la differenza tra te e il cantastorie Luigi Di Pino?
Luigi Di Pino, mio fratello in arte, è un cantastorie per eccellenza. Egli incarna, formatosi sulla scia di Orazio Strano suo compaesano, alla perfezione gli stili, i suoni, le melodie, le movenze del cantastorie tradizionale. Di Pino rapisce e avvolge il pubblico, commuovendo o divertendo, capace di fare lunghi spettacoli senza stancare. Non mi sono mai definito cantastorie, lo hanno fatto gli altri perché non sapevano cosa fosse un aedo. Lo hanno fatto i giornalisti e i presentatori improvvisati che per facilitare il concetto mi hanno incluso nel gruppo. Sono più un cantore di poesia. Ho messo su lunghi percorsi di oltre un’ora nei quali descrivo e spiego la nostra ricca produzione letteraria, lo faccio recitando e cantando. All’inizio della mia carriera, infatti, definirono le mie performance “conferenze-spettacolo”. Poi fagocitato dal sistema anch’io ho scritto storie di miracoli e di accadimenti usando la sestina coronata, (’ntruccatùra), come vuole la tradizione siciliana.
-È vero che I siciliani non conoscono le bellezze della loro isola?
Non so se i siciliani conoscono quanto bella sia la loro terra. Di certo non conoscono la storia, quella vera, dell’isola; non conoscono le tradizioni e soprattutto stanno perdendo l’uso della lingua e la conoscenza delle parole. Il pacchetto di parole conosciute oggi dai siciliani, facendo una media, è di circa 300 parole. Naturalmente la media viene fatta includendo nel campione giovani e anziani. Anche i poeti che scrivono in dialetto sono poveri di termini, pur conoscendo la grammatica. Ogni parola siciliana ha una carica semantica molto forte, che spesso è intraducibile. Le parole hanno una storia e fanno storia, non conoscerle significa navigare senza bussola.
Buttitta aveva già avvertito questo pericolo, ma oggi si sta lavorando per evitare che la Lingua nata dal “Regale Solium” non si perda del tutto.
-Cosa rappresenta l’Etna per i siciliani?
L’Etna per noi siciliani è fimmina. E come fimmina è matri e matrastra; sa essere affascinante e sensuale, tremenda, spietata, ingrata. A me ha dato la carica esistenziale come ogni buona madre dà al proprio figlio facendolo crescere sano, sicuro e forte. Salire in vetta è come arrivare agli astri e illudersi di vivere in eterno.Il lavoro più significativo e importante nel quale l’Etna è la protagonista si intitola “Maria matri di la lava” ispirato dall’eruzione lavica del 1669. Storia scritta nel 2019 (350° dall’eruzione) e cantata in modo tradizionale con relativo cartellone (1,80 x 2,00) dipinto da Cristiana Leonardi.
-Quanti libri e quante canzoni hai scritto?
Ho scritto tanto. Ho esordito con la poesia: “Canti di pietra lava” (1985) quindi “Chiaroscuri” (1986). Poi nel 1989 il primo romanzo giovanile “Una vita di scorta” e il primo saggio storico “Michele Purrello, l’uomo l’eroe” (1990). Da quel momento in poi cominciai la mia militanza nel campo della poesia e cultura siciliana che mi portò a collaborare con riviste specialistiche del settore e a scrivere prefazioni, saggi e recensioni. Nel 1992 feci la mia prima esperienza discografica insieme a Rosita Caliò incidendo una audiocassetta “Ti lu cuntu e ti lu cantu”. Incoraggiato da questa esperienza nel 2002 incisi il Cd “La pampina di l’alivu” un insieme di canzoni vecchie e nuove siciliane. Il 2003 fu l’anno della svolta. Licenziai alle stampe un altro romanzo che ebbe un discreto successo, “La parola ferma in gola”. Con l’avanzare degli anni arrivai ad una poesia più matura, sia nei contenuti che nella forma, e pubblicai nel 2006 la raccolta “Nudi e crudi”. Nel frattempo le mie ricerche letterarie mi portarono ad uno studio poetico apprezzato dal prof. Giuseppe Gulino (docente Dialettologia università Catania) che mi accreditò ad un Seminario internazionale su Petrarca, nel 700° dalla nascita, 1304-2004, all’Università Nazionale di Città del Messico. Da questa esperienza nacque il primo saggio critico-letterario dal titolo “Canzuneri ppi Rusidda” dedicato all’ultimo Petrarca di Sicilia, Giuseppe Nicolosi Scandurra, pubblicato sempre nel 2006. Nel 2009 un’altra raccolta di poesie “Jennuvinennu” si aggiunse a “Nudi e crudi”, entrambe si completeranno con la terza “Cca sugnu” del 2012.
Le tre raccolte rappresenteranno la poesia della mia maturità. L’anno dopo nel 2013 arriva un’altra pubblicazione, una delle mie preferite: “Arsura d’amuri – Omaggio a Graziosa Casella” con la quale riporto alla luce una delle più significative poetesse della prima metà del Novecento catanese riconsegnandola alla sua terra che l’aveva completamente dimenticata. Sono l’unico ad aver scritto di lei. Da quel momento in poi ci sono stati: – Tra ciuri d’aranci e spini santi, storia della donna siciliana nei cunti e nei canti popolari, (2014); Alfredo Danese e la Sicilia nel sangue – saggio critico, storico- letterario, (2016; Nino Giuffrida, poesie d’amore, di protesta e di sbarìu – saggio critico letterario, (2018); Eretici, Avventurieri e Cospiratori: Poeti siciliani nel travagliato Seicento e altri saggi storici. Come storie eseguite da cantastorie cito: Tra ciuri d’aranci e spini santi; Maria matri di la lava; ’A Madonna dâ Catina” e Giordana Di Stefano, a Nicolosi, uccisa il 6 ottobre 2015 dal suo ex compagno.
– A quale libro e a quale canzone ti senti più legato?
Sono legato alla trilogia “Nudi e crudi”, “Jennuvinennu” e “Cca sugnu”; al romanzo “La parola ferma in gola”; ai saggi critico-letterari “Canzuneri ppi Rusidda” e “Arsura d’amuri”.
-Suoni in Sicilia, al nord e all’estero, come reagisce il pubblico ai tuoi spettacoli?
Il pubblico, assai eterogeneo, mi segue sin dal mio esordio. Dei miei spettacoli apprezza la loro atipicità, sembro tradizionale ma in realtà sono innovativo. Gente semplice e intellettuali sono il target più frequente. I bambini delle scuole e gli anziani le fasce di età più comuni. All’estero ho avuto molto successo tanto da essere richiamato in Messico e in Sudafrica. Lo spettacolo più faticoso l’ho tenuto a New York. Il più commovente a Buenos Aires.
-Com’è andata la tua esperienza musicale a Città del Messico?
A città del Messico, dove ero già stato nel 2004, ho tenuto un seminario di 18 ore in dieci giorni all’Università nazionale autonoma di Città del Messico sulla poesia siciliana dal titolo “Allakatalla, cuando la palabra se hace poesia y la poesia canto. Ochocientos años de producción literaria en lengua siciliana”. L’ho fatto per 23 studenti messicani iscritti in Italianistica, veri destinatari del Corso (poi diventati una settantina per il diffondersi della notizia di questo professore atipico siciliano con la chitarra). Mentre ero a Città del Messico inaugurai, con una conferenza spettacolo, la settimana della lingua italiana presso l’Istituto Italiano di Cultura e tenni uno spettacolo per gli iscritti della Società Dante Alighieri. Fu un vero successo. Organizzato dalla capo Dipartimento prof. Maria Pia Gonzales in collaborazione della catanese Sabina Longhitano, il Corso fu finanziato dalla stessa Università.
– Dove nascono le tue canzoni?
Ogni luogo è fonte di ispirazione. L’autunno è la stagione preferita per scrivere, l’estate quella da vivere. Mi piacciono i paesini interni della Sicilia, respiro la loro aria e poi scrivo.
– Puoi commentare questi versi:
“S’ammazza u pinseri
e l’omu s’arridduci
ferra di sciara
e mazzuni di scogghiu”.
Ciò avviene «quannu s’ammazza ’a parola». La parola, secondo me, oggi è l’unica arma che ci è rimasta, fino a quando ci permetteranno di parlare. Attraverso le parole noi esprimiamo i nostri pensieri e i nostri sentimenti. Più parole conosciamo e più riusciamo a comunicare e farci capire. Per questo «Quannu s’ammazza ’a parola / s’ammazza ’u pinseri» e l’uomo si riduce una nullità, come ’u mazzuni di scogghiu, il pesce stupido che abbocca al primo amo e alla ferra di sciara, alla ferula comune, al finocchiaccio che cresce nelle zone aride della Sicilia.
-Prima si facevano le serenate sotto i balconi delle ragazze siciliane, questo mondo sembra ormai lontanissimo eppure le donne amano molto le serenate. Ogni donna ne vorrebbe una tutta per sé. Puoi spiegare il significato dei versi di questa serenata: “A tia beddru lampiuni mi raccumannu, senza la luna li ziti chi fannu”?
Le serenate, è vero, alle ragazze piacciono sempre. In gioventù ne ho portate tante insieme a quel gruppo di menestrelli (da salone). Il binomio donna amata e luna ci viene tramandato dai musulmani che abitarono la Sicilia. Essi chiamavano “gelosia” la finestra ruffiana che nascondeva l’amata agli occhi del corteggiatore e dei suonatori. Lei da dentro poteva vedere fuori, ma da fuori non si poteva vedere dentro. Gli arabi hanno sempre celato la donna perché aumentasse il desiderio di scoprirla. Ma quando la luna non c’è e il buio fitto avvolge la sera gli innamorati cosa fanno? O cosa potrebbero fare se non si affidarsi al lampione che ha il compito di vigilare?
Chi fannu li ziti? Chiddu ca hannu fattu sempri: munnu ha statu e munnu è!
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Dal momento che ho iniziato questo percorso culturale, interiore ed esteriore, non mi sono mai fermato. È come se lo avessi fatto da sempre e come se fosse tutto proiettato in un inesauribile futuro. Il tutto vissuto in un eterno presente. Cosa farò? Quello che ho fatto fino ad ora.
Biografia
Alfio Patti fa il poeta e il cantautore. Laureato in Pedagogia, da oltre 40 anni si occupa di lingua e poesia siciliane. È autore di numerosi testi di poesia, narrativa e saggistica
Le sue scritture continuano a riscuotere consensi in parallelo a quelli che il Patti-cantautore consegue con i suoi spettacoli canto-chitarra. Dal 2002, infatti, ha lanciato il suo primo spettacolo che ha ottenuto successi in Sicilia, in Italia e all’estero (Australia, Francia, Messico, Argentina, Sud Africa, Stati Uniti). Uno spettacolo veramente singolare che lui stesso ha battezzato “Allakatalla” avente per protagonisti versi, musiche, canti e didascalie di motivi classici e moderni della Sicilia. Dal suo esordio come Aedo e Cantastorie, avvenuto a Catania nell’ottobre 2002, altri spettacoli sono nati come “Friscanzana” e “Tra ciuri d’aranci e spini santi” portati in giro per teatri e piazze. Quest’ultimo ha superato per repliche di gran lunga “Allakatalla”.
“Ho voluto dare alla poesia una dimensione visivo-fonico-gestuale – spiega Alfio Patti – per renderla più gradevole e comprensiva, affinché la gente si avvicini alla poesia e alla nostra cultura. Sono dell’idea che la poesia non è di pochi, ma di tutti, basta solo saperla proporre e tirarla fuori dagli steccati dove è stata reclusa.”
Alfio Patti è nato a San Gregorio di Catania dove vive con la famiglia. Giornalista pubblicista, ha lavorato come redattore ne “La Tecnica della Scuola”, come corrispondente per il quotidiano “La Sicilia” e come addetto stampa nel suo comune di residenza, San Gregorio di Catania. Ha scritto una sessantina di saggi critici su poeti siciliani a partire dall’Ottocento ad oggi, pubblicati su diverse riviste specialistiche; da “Arte e Folklore di Sicilia” di Catania a “Ethnos” di Siracusa, a “Il Giornale di Poesia Siciliana” di Palermo ad “Arba sicula” degli Usa.
Per il suo impegno rivolto alla ricerca e alla divulgazione della cultura siciliana, nel febbraio 2022 la Regione Siciliana lo ha inserito nel Reis (Registro delle eredità immateriali di Sicilia, Libro dei Tesori viventi). Sua la scoperta, la valorizzazione e la divulgazione della poetessa catanese Graziosa Casella (Catania 1906-1959) con il libro “Arsura d’amuri”.
FOTO di Gianni De Gregorio e Nuccio Russo.
Ripost.it, 19 aprile 2025
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