sabato, marzo 15, 2025

L’omicidio di Mico Geraci: «Era già stato minacciato». Un carabiniere depone sul delitto di Caccamo


L’ironica confidenza della vittima al militare: «Qui la mafia non esiste»

Fabio Geraci

A ventisette anni dall’omicidio di Mico Geraci, il processo continua a svelare dettagli inediti sul delitto, avvenuto la sera dell’8 ottobre del 1998 a Caccamo. Nell’udienza di ieri, davanti alla Corte d’assise presieduta da Vincenzo Terranova, un carabiniere ha riferito che, un mese prima di essere ucciso, il sindacalista della Uil gli aveva confidato di essere stato minacciato.

L’avvertimento era arrivato attraverso le parole di un barista del paese che lo aveva avvicinato dopo un convegno sulla mafia locale, a cui aveva partecipato anche l’ex onorevole Giuseppe Lumia, all’epoca membro della commissione antimafia. «Staccatevi da lui, qui la mafia non esiste», un messaggio che Geraci non aveva sottovalutato anche perché si era reso conto che stava entrando nel mirino di Cosa nostra a causa delle sue battaglie in favore della legalità.

In aula era presente il figlio di Mico, Giuseppe, mentre i due imputati, i fratelli Pietro e Salvatore Rinella, rite- nuti i mandanti del delitto su input di

Bernardo Provenzano, hanno seguito il dibattimento in videoconferenza. Tra il pubblico c’era anche il sindaco di Caccamo, Franco Fiore, che ha de- finito la sua presenza «un atto dovuto nei confronti della comunità, della famiglia e dello stesso Mico Geraci».

Le indagini hanno già rivelato come l’attività sindacale e politica di Geraci abbiano determinato il suo destino. Decisive sono state le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Emanuele Cecala, Andrea Lombardo e Massimiliano Restivo, che hanno ricostruito il contesto e gli ordini di morte. Per la Procura, il delitto venne materialmente realizzato da due giovani, Filippo Lo Coco e Antonino Canu, poi entrambi morti ammazzati: il primo venne ucciso il 7 novembre 1998, su ordine dei Rinella, e il secondo il 27 gennaio del 2006.

Il sindacalista dava fastidio perché aveva deciso di candidarsi alle elezioni per diventare sindaco e soprattutto perché nei suoi comizi aveva denunciato diverse anomalie nella gestione del piano regolatore e dell’acqua pubblica da parte dell’amministrazione comunale di Caccamo che poi era stata sciolta per mafia.

A quel punto gli uomini d’onore

avevano in pratica decretato la sua condanna a morte: era insopportabile il fatto che avesse rifiutato più volte le pratiche per ottenere i contributi che alcuni di loro - ufficialmente agricoltori - avevano presentato al patronato da lui diretto.

In tanti si erano infuriati e avevano chiesto al capo del mandamento, Nino Giuffrè - poi diventato collaboratore di giustizia - di intervenire ma lui si era rifiutato di compiere azioni eclatanti ed era stato scavalcato. Sarebbero stati altri due componenti della famiglia mafiosa di Caccamo, Giorgio Liberto e Salvatore Puccio, a lamentarsi «posando» Giuffrè: erano andati direttamente da Bernardo Provenzano, che a Caccamo aveva una delle sue roccaforti, sostenendo che il sindacalista doveva essere fatto fuori perché stava facendo perdere molti soldi a Cosa nostra. E «u Zu Bi- nu», per uccidere Geraci, si sarebbe rivolto a Salvatore e Pietro Rinella che, all’epoca, erano al vertice della fami- glia mafiosa di Trabia.

GdS, 15/3/2025

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