domenica, marzo 23, 2025

Intervista al procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia: «La mafia non è morta e la politica la cerca».

Maurizio De Lucia

Riccardo Arena

De Lucia: «Manca una vera leadership. Gli enormi profitti dei traffici di stupefacenti vengono investiti sul business del momento, il turismo»


È un messaggio che non deve passare: la mafia non è stata definitivamente sconfitta. «Cosa nostra è giovane, ma lo era pure in passato - dice Maurizio de Lucia - sono cambiati solo i metodi e il ricorso a forme di violenza meno cruenta. Viene ancora cercata da politica e imprenditoria, che pure non hanno o non avrebbero più questa necessità». E soprattutto investe gli enormi profitti dei traffici di stupefacenti sul cosiddetto Overtourism, la nuova frontiera del business delle città invase da frotte di persone. De Lucia, 64 anni, dal 2022 procuratore della Repubblica di Palermo, non ha al suo attivo solo la relativamente recente cattura di Matteo Messina Denaro, ma anche il processo che quasi vent’anni fa sconvolse le istituzioni regionali, con la condanna - poi espiata in carcere - di un presidente della Regione (Totò Cuffaro) che era in carica quando subì la prima sentenza.

Per il capo della Direzione distrettuale antimafia la prima domanda è quasi d’obbligo: qual è lo stato di salute della mafia?

«Non è quella degli anni ’80 e ’90, che lo Stato combatteva solo con alcune sue parti, purtroppo isolate, né contro di essa c’è più la sensibilità di segno del tutto opposto, seguita alle stragi del 1992, una mobilitazione generale che l’aveva e l’ha indebolita. Però il messaggio secondo cui è definitivamente sconfitta non deve passare, sarebbe un grave errore».

Siamo sempre lì; se esiste l’antimafia, evidentemente c’è la mafia. I 181 arresti di febbraio, tutti insieme, non se li aspettava quasi nessuno.

«E non ci sono stati solo questi, che magari colpiscono di più per il numero: il mese prima la polizia aveva eseguito l’ordinanza del procedimento Bonura+20, a dicembre 2024 i carabinieri avevano portato a segno 50 fermi, tutti confermati, contro la mafia agrigentina».

Dunque esiste ancora, la mafia, anche se - ad esempio - alla conferenza stampa di inizio anno, al presidente del Consiglio Giorgia Meloni non è stata rivolta una sola domanda sul tema.

«Esiste e tende a rigenerarsi, è giovane - la metà dei 181 è sotto i quarant’anni - ma questa non è una novità perché i Brusca, i Ganci, gli Anzelmo facevano i superkiller a vent’anni o giù di lì. La differenza è nella elevata capacità tecnologica, nell’uso delle piattaforme e dei telefoni criptati, anche in carcere. Però la giovane età media fa riflettere sulla capacità attrattiva persistente di questa organizzazione, per le nuove generazioni».

Uccidono di meno e, se lo fanno, lo fanno in maniera estemporanea. Però picchiano di più.

«Il ricorso all’omicidio non è più frequente perché lo Stato ha indebolito Cosa nostra e anche perché suscita l’attenzione delle forze dell’ordine dell’opinione pubblica. Si ricorre così a punizioni fisiche meno cruente ma sempre efficaci, dal punto di vista criminale: cambia il modo ma non i meccanismi».

Frutto anche della mancanza di un vertice?

«Il fatto che manchi, e da tanto tempo, per noi è positivo: dalle ultime indagini è emerso che i singoli mandamenti devono agire anche in assenza di risoluzioni strategiche unitarie. Per questo si continuano ad acquistare partite di stupefacenti dai calabresi, non più in maniera episodica ma sistematica: la ndrangheta ormai compra a livello mondiale e lo fa assieme a pezzi di Cosa nostra».

Pezzi singoli, non tutta l’organizzazione. E il tantissimo denaro incassato grazie a questi traffici, che fine fa?

«Viene reinvestito, se ce ne sono le occasioni. E questa città, con tutti i suoi limiti e i suoi malanni, registra un boom nel settore del turismo: positivo, pur fra tanti disagi per i cittadini, specie se il fenomeno dell’overtourism non viene governato; però fonte di enormi guadagni e di affari non sempre tracciabili. Penso al settore della ristorazione, al mondo spesso in nero dei posti letto, al fatto che molte transazioni siano in contanti e che si facciano tantissimi soldi: soprattutto si fanno in fretta».

E che fine fanno i soldi?

«In gran parte finiscono in investimenti economici, ma ci sono anche un esercito e una base militare da mantenere e da ristrutturare, i detenuti da sostenere…».

Insomma, le piccole grandi spese si affrontano anche così. Nei blitz che avete fatto, però, mancano i politici. Cos’è successo, si sono interrotti all’improvviso i rapporti?

«E no: anzi questi mondi, esterni all’associazione mafiosa - la politica, l’imprenditoria - pur potendo farne a meno, pur potendo chiudere i rapporti, continuano a cercare il contatto con gli ambienti mafiosi. La mia Procura però non fa retate di politici: cerca le prove e ottiene le condanne, perché servono elementi significativi per processare e soprattutto per far condannare. Sulla corruzione, ad esempio, il procuratore della Repubblica non è lo sceriffo che indaga sui fenomeni corruttivi, ma li verifica attraverso indagini e processi, facendo condannare i corrotti. Cosa sempre più difficile».

Quarantacinque giorni per le intercettazioni nelle inchieste non di mafia: possono mai bastare?

«Diciamolo francamente: il processo penale, così com’è, non può funzionare. Eccezion fatta per le vicende di mafia, in cui c’è una corsia preferenziale, per il resto non si può mai prevedere se e quando il giudizio si concluderà. Ventuno interventi nella legge penale in un solo anno sono veramente tanti. Non c’è una logica nelle scelte politiche: si legifera troppo e non in maniera organica».

Eccesso di garantismo?

«Non lo definirei così: parlerei piuttosto di garanzie episodiche. Che senso ha, ad esempio, nelle indagini di cui lei diceva prima, poter fare le intercettazioni solo per 45 giorni? C’è un inizio e una fine della corruzione, entro un mese e mezzo?».

Però adesso c’è la separazione delle carriere. Serve per una giustizia giusta e veloce?

«La separazione non serve a equilibrare un processo già equilibrato. Cambiare funzioni tra pm e giudici è complicato già adesso; creare due Csm, uno per giudicanti e uno per requirenti, creerà un pm autoreferenziale, che non risponderà a nessuno e che finirà sotto il controllo dell’esecutivo. E non accelererà i processi».

Tutto questo si accompagna ai tanti bavagli per i giornalisti. Avere i nomi di persone arrestate è diventato quasi uno scoop.

«Va detto che diffondere i nomi non è per niente vietato, sono interpretazioni restrittive delle forze investigative che alla fine servono per aggirare grattacapi comunque possibili. In un sistema liberale non si deve impedire alla stampa di pubblicare le notizie ma di diffamare: con le restrizioni peraltro si crea il mercato nero delle notizie. E non si devono dimenticare i social, che trasmettono messaggi in maniera pericolosa, spesso senza filtri e senza l’intervento del giornalismo professionale».

L’ultima domanda è d’obbligo: come sta l’antimafia? Glielo chiedo anche dopo lo choc dei referti in ritardo a Trapani e delle 24 ore di «attesa» (si fa per dire) del paziente Matteo Messina Denaro. L’inefficienza della pubblica amministrazione spesso si accompagna a iniziative per la legalità, per l’affrancamento dal giogo mafioso.

«Io rimango ancorato a una parte del famoso articolo di Sciascia sui professionisti dell’antimafia: a poco serve un pubblico amministratore che faccia tanta antimafia e poi non cambi le lampade per la strada, non ripari le buche, non faccia funzionare la macchina amministrativa. L’antimafia che serve è anche questa».

Riccardo Arena

GdS, 22/3/25

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