Un omaggio al carissimo amico e maestro Salvatore Maurici
di MICHELE VACCARO
Salvatore Maurici è uno dei pochi, anzi pochissimi, “fratelli” che ho incontrato nel campo della cultura. Con lui, persona onesta, sincera, altruista e disponibile, spesso dialogo e mi confronto, apprendendo sempre qualcosa. Egli nasce come storico anticonformista, atipico, realizzando nelle nostre zone una sorta di “rivoluzione copernicana” nell’ambito culturale, sfatando la presunta “autorità”, sophisma auctoritatis avrebbero detto i filosofi della Scolastica, di alcuni “coltissimi” personaggi, non sottomettendosi acriticamente all’ipse dixit di qualche solone, o presunto tale, non conformandosi pedissequamente a esplicitazioni prima incontrastate, ma percorrendo uno status alternativo. Prosegue, poi, come narratore e come poeta, come critico e memorialista, non trascurando i ruoli di folklorista istintivo e di demopsicologo, ruoli apparentemente
uguali, in realtà diversi: il primo raccoglie “i materiali”; il secondo li vaglia, li esamina, li “anatomizza” per indagare i lati più intrinsechi e più ombrosi dell’anima popolare. Autore multiforme quanto prolifico, la sua produzione in prosa e in versi, pur senza ricorrere a un’iperbole, è veramente vastissima.Salvatore Maurici, con le ottanta pagine de Il Conzo, saggio specchio della sua vita, fornisce una preziosa documentazione, un’indagine demoantropologica, un quadro analiticamente oggettivo sulla condizione dei contadini e dei pastori, le cui attività hanno sempre convissuto. La pubblicazione, sicuramente scientifica ma con una sostanziale presenza di discrezionalità, è intrisa di denso autobiografismo, e si giustifica con l’utilità di conservare preziose testimonianze, di recuperare e fissare memorie e tradizioni legate alla cultura materiale e di sottrarle all’incuria del tempo, di prolungare efficacia vitale e di rivalorizzare parole, locuzioni dialettali, oggetti e segni di un passato non troppo lontano nel tempo, di un passato che, purtroppo e per fortuna, secondo i punti di vista, non tornerà più.
La passione per la civiltà contadina, con tutte le attività ergologiche tradizionali a essa connesse (la pastorizia, su tutte), ha suscitato in Salvatore un’attenzione particolare. Lo scrittore, che l’ha vissuto, non ha fatto altro che rileggere l’universo agricolo e pastorale che, per secoli, con ritmi quasi impercettibili, ha cadenzato l’esistenza di tante generazioni e marcato a fondo il territorio, la pianificazione del lavoro e gli stessi insediamenti umani.
Negli ultimi settant’anni l’economia agro-pastorale è stata contrassegnata da una sequenza di trasformazioni. I processi migratori, la deruralizzazione, la meccanicizzazione delle campagne, la terziarizzazione, le innovazioni tecnologiche, la rimodulazione dell’ampio scenario socio-culturale sono le manifestazioni più incisive che hanno influenzato l’alterazione di tantissime aree, provocando talvolta sconvolgimenti antropologici, che, in primis, hanno portato all’eclissi di vecchie “aziende” a conduzione familiare.
Eppure l’importanza storico-economica e sociale della cultura contadina fino alla metà degli anni Settanta ha costituito la componente essenziale dell’identità dei sambucesi e dei siciliani: un ambiente genuino materiato di eroismo esistenziale, di sacrifici e d’indicibili sofferenze umane, contraddistinto da mestieri oggi in gran parte scomparsi e di cui Salvatore ci fa percepire nel suo saggio i bagliori. Un mondo che, per quanto sappiamo, non ha avuto nelle nostre zone alcuna seria e dettagliata rappresentazione letteraria o storico-sociale, non ha avuto un adeguato riscontro nella produzione saggistica, segnatamente in quella demo-antropologica: proprio per questo le oculate testimonianze riportate dal Maurici rappresentano un unicum attraverso cui si sono ricostruiti sentimenti, pensieri, consuetudini, azioni, costumi, usi, aspetti economici e antropologici, non permettendo alla memoria di opacizzarsi. L’autore realizza nostalgicamente una sorta di appassionata epopea dei “forzati della terra”, dei “senza terra”, dei “pecorai”, di un popolo puro che sa di semplicità e che conosce solo il lavoro.
I momenti più felici de Il Conzo, una vera boccata d’aria fresca, li troviamo in quelle pagine in cui lo studioso, compiacendosi, descrive, anche con dovizia di particolari, la natura campestre (monti, boscaglie, sentieri, sorgenti, “bevai” e così via), che gli appare, nello stesso tempo, idillica ed elegiaca, dove la sua anima si rifugia per ritrovare sé stesso, l’agognata pace, per evadere dalla realtà contingente. Egli non sa staccarsi dalla terra, anzi non si è mai staccato del tutto. La campagna rappresenta un luogo fisico e un luogo ideale che influenza energicamente la sua sensibilità, rappresenta una larga fonte di suggestivi e indelebili ricordi, d’immagini, di fantasie e d’ispirazioni. È questo, riteniamo, il motivo più “poeticamente” vivo del libro, motivo che il Maurici ha ben espletato, materializzando lo sforzo di chi si è proposto uno scopo da raggiungere (intentio auctoris). È questo che l’intonazione generale del saggio rivela, senza nessun proposito volutamente intellettualistico, senza orpelli retorici, senza ricorrere alle exornationes verborum, alle elucubrazioni, alle sovrastrutture culturali.
E andiamo all’aspetto etnodialettale, osservato dal punto di vista euristico nell’impegno, riuscito, di contestualizzazione del dato linguistico. Maurici nelle pagine de Il Conzo registra, nel tentativo di salvaguardarlo, un lessico settoriale che sta svanendo insieme con gli ultimi parlanti; un linguaggio essenziale e immediato, che rispecchia la mentalità e la scarsa cultura dei personaggi descritti, ma dotato di specifici tecnicismi che danno luogo a un recupero della conoscenza di manufatti, di strumenti di lavoro, di attrezzi, di utensili, alcuni dei quali irrimediabilmente scomparsi o che fanno bella mostra in qualche museo etnoantropologico. Negli etnotesti risultano presenti anche alcuni detti paremiologici.
Maurici è stato il primo, nelle nostra area geografica, a guardare al patrimonio storico ed etnoantropologico da un’angolatura chiaramente eterodossa rispetto all’ortodossia metodologica degli storici, come indagine viva e documentata, che potrebbe essere allargata anche ad altri territori (Palazzo Adriano, in particolare); è stato il primo a essere sollecitato dalla presa di coscienza dell’apartheid socioculturale delle masse, ad affiancare la prospettiva subalterna del vissuto a quella egemone, dando luogo a quella che demologi e antropologi definiscono controstoria, il cui compito è quello di “correggere” la storiografia ufficiale, per una prospettiva integrale della storia, per un recupero dell’uomo totale, per una storiografia globale che non emargini più il vissuto subalterno, soprattutto dopo l’accentuarsi di fermenti sociali sfociati nel Mezzogiorno nell’occupazione contadina delle terre. E come dimenticare l’irruzione nella storia dei ceti meno abbienti, della tematica meridionalistica, dell’affermarsi del pensiero di Antonio Gramsci, di Leone Ginzburg, di Ernesto De Martino, si, proprio lui, “rampollo diretto del crocianesimo” ma anche il primo a spezzare l’assioma crociano di una storia come fatto egemone che annulli ogni aspetto di subalternità.
La fedeltà a un luogo, Sambuca, l’area d’indagine considerata, e a un soggetto storico, i subalterni, i non egemoni per definizione, è stato sempre il tratto distintivo della ricerca del Maurici, una ricerca esercitata al tavolo dello storico ma soprattutto sul campo dell’indagine antropologica, attraverso l’uso di etnofonti, di fonti, cioè, non formalizzate e non tradizionalizzate.
È questo il grande merito che riconosciamo a Salvatore, considerando come storia e antropologia si siano ignorati reciprocamente per lungo tempo, patendo a causa di chiusure specialistiche: ognuna con un proprio metodo, un proprio linguaggio, una propria finalità di ricerca, un proprio campo. È un pregio del Maurici, a mio parere, quello di aver sempre guardato la storia dal basso, di aver concentrato l’attenzione sui “non letterati”, sui “senza scrittura”, sugli “esclusi”, sulle vicende dei popolani, sulle loro condizioni di vita, sui loro modi di pensare, sul loro modus operandi, sui loro oggetti di uso quotidiano. Insomma sul mondo “altro”, quello della subalternità, verso il quale si è avuto una palese diffidenza, e che per troppo tempo è stato trascurato dalla storiografia ufficiale, tutta presa a occuparsi di guerre e di rivoluzioni, di trattati, d’intrighi politici. Un merito non da poco, quello del Maurici. Chapeau!
Michele Vaccaro
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