martedì, gennaio 28, 2025

L’APPELLO. I familiari delle vittime: “Le cosche si riorganizzano, risvegliamo l’antimafia”

di Giusi Spica

Parlano di un’antimafia «ridotta all’osso» , oppure ripiegata nella «liturgia degli anniversari». Rilanciano l’allarme dei magistrati di Palermo su Cosa nostra in fase di riorganizzazione e chiedono al governo di rivedere la giurisdizione dei permessi premio e della semilibertà per i boss, per «non vanificare – dicono – il sacrificio dei nostri cari». 
Dopo l’intervista di Maria Falcone a Repubblica, anche altri familiari di vittime di mafia puntano il dito sul clima di «indifferenza e silenzio» che si respira a Palermo e in Sicilia sul tema della lotta ai clan e sulle scarcerazioni di killer mafiosi degli anni Ottanta e Novanta negli ultimi mesi. Un fenomeno, questo, oggetto delle inchieste del nostro inviato Salvo Palazzolo, finito sotto scorta per le «gravi ostilità nei suoi confronti» rilevate dalla procura di Palermo. «È un fatto che mi colpisce ma non mi stupisce», commenta il giornalista e scrittore Claudio Fava, figlio del cronista catanese Giuseppe Fava ucciso nel 1984.

«L’idea che la mafia sia una creatura sconfitta e immobile non tiene conto degli ultimi 50 anni di storia. È proprio nel silenzio e nella scelta di un profilo basso che l’organizzazione si consolida. Il fatto che non corrano più pallottole non significa che si siano ritirati dalla scena». Eppure, insiste, intorno c’è un silenzio preoccupante: «Qual è il modo in cui si definiscono i nuovi assetti? Quanto forte è la capacità di mediazione con politica e impresa? Queste sono domande necessarie. Ed è chiaro che la scarcerazione che applica rigidamente un cavillo di legge, inserita in un contesto così preoccupante, fa paura. Non si può chiedere ai magistrati di manipolare le norme del codice ma di avere un atteggiamento interpretativo meno superficiale sì». Per Fava «c’è un cedimento di tensione sul piano politico e un’antimafia appiattita più sull’aspetto liturgico e devozionale della celebrazione degli anniversari, ormai totalmente inoffensiva. Invece, bisognerebbe parlarne ogni giorno nelle scuole». 
Un clima di stanchezza, insomma. Che ferisce i familiari di chi ha dato la vita per la lotta alla mafia. «Ciò che sta accadendo, le scarcerazioni, le minacce al giornalista, è molto triste. Bisogna continuare a tenere alta la guardia» , sottolinea Rosalba Cassarà, sorella del vicequestore aggiunto di Palermo Ninni Cassarà, assassinato nel 1985: «Purtroppo l’antimafia autentica è ridotta all’osso, come ha dimostrato la vicenda Montante. Dopo le stragi del ’ 92 sono stati fatti tanti passi avanti, soprattutto sul fronte della sensibilizzazione fra i giovani. I risultati si ottengono nelle scuole dove c’è un personale docente impegnato e sensibile alla lotta alla mafia. Bisogna fare molta leva sui giovani motivati che rappresentano speranza di rinnovamento della società davvero radicale» . Cassarà si dice molto preoccupata degli allarmi dei magistrati sugli intrecci tra mafia e politica: «È questo il motivo per cui non partecipo ad attività di sensibilizzazione nelle scuole quando ci sono politici, non voglio che il nome di mio fratello sia strumentalizzato » . Poi la stoccata contro la riforma Nordio: «Sono indignata, non solo perché separa le carriere dei magistrati ma anche perché rischia di rendere il potere giudiziario asservito a quello politico». La stessa amarezza emerge dalle parole di Tina Montinaro, vedova dell’agente di scorta del giudice Giovanni Falcone ucciso nella strage di Capaci: «Da tanti anni faccio attività antimafia nelle scuole, cerco di lavorare sulle nuove generazioni. Poi ti rendi conto che sono passati 32 anni e questa gente sta di nuovo fuori e si sta riorganizzando. Se un killer che non ha mai voluto collaborare con la giustizia esce di galera a 60 anni, cosa va a fare? Il muratore? Comandavano dentro, comanderanno fuori» . Uno sfogo durissimo, anche verso l’antimafia di facciata: «L’attenzione è calata e non è un buon esempio. Oggi sentiamo che in città si paga di nuovo il pizzo per avere protezione. E questo ci mortifica». 
Eppure, «c’è ancora speranza» . Ne è convinto Nino Morana Agostino, nipote di Vincenzo Agostino, padre dell’agente di polizia ucciso con la moglie nel 1989 a Carini: «Ho 23 anni, studio giurisprudenza e da anni con altri giovani faccio attività antimafia nelle scuole. Non è vero che a Palermo c’è solo indifferenza» . Sulle scarcerazioni, ha le idee chiare: «Se si scarcerano boss che non hanno mai collaborato, non avremo mai verità sulle stragi e gli omicidi ancora irrisolti. Più dell’ 80 per cento delle vittime non ha ancora giustizia. La giurisdizione italiana dovrebbe essere rivista». 

La Repubblica Palermo, 28/1/25

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