sabato, gennaio 11, 2025

L’app che mette a posto... gli estorsori. A 34 anni dalla lettera-denuncia di Libero Grassi pubblicata sul Giornale di Sicilia, Addiopizzo ha presentato l'applicazione “Pago chi non paga”


Mariani: «I cittadini collaborino attivamente nella lotta al pizzo». Mazzocco: «In tanti oggi dicono no al racket». Il figlio dell’imprenditore ucciso: «Mio padre ha detto la verità, senza ipocrisia». 
L'app di Addiopizzo nasce per essere il più vicino possibile ai cittadini che con il telefonino possono scegliere le attività commerciali che non si piegano al racket

Fabio Geraci

Palermo, 10 gennaio 1991: una data che ha segnato la storia della lotta al racket. Con la sua lettera al «caro estortore», pubblicata sul Giornale di Sicilia, Libero Grassi ha rotto il muro di omertà sfidando Cosa nostra. A distanza di 34 anni la sua denuncia continua a essere un simbolo di coraggio, ma oggi la battaglia contro il pizzo è sostenuta anche da strumenti digitali che consentono di rafforzarne l'efficacia. La città che non cede è infatti arrivata sugli smartphone: Addiopizzo ha presentato ieri l'applicazione Pago chi non paga che, dopo averla scaricata, permette di individuare tramite geolocalizzazione ristoranti, bar e negozi di abbigliamento e altre attività commerciali che hanno scelto di non pagare la cosiddetta «messa a posto». Realizzato grazie al

sostegno dei fondi dell'8x1000 della Tavola Valdese, il portale - a cui sono attualmente iscritte già circa mille imprese - rappresenta una svolta nel consumo critico offrendo così l'opportunità di supportare chi ha avuto il coraggio di dire no e rendendo accessibile a tutti una rete di solidarietà e resistenza contro l’economia illegale.

È stato il presidente di Addiopizzo, Raffaele Genova, a illustrare il valore dell'app: «L'idea nasce dal voler essere il più vicino possibile ai cittadini - spiega Genova - utilizzando il telefonino per scegliere dove fare i propri acquisti e per trovare una soluzione più sostenibile rispetto alle guide cartacee. Grazie a questo meccanismo possiamo vedere ogni giorno quante aziende decidono di unirsi a noi, molte delle quali sono avviate da giovani che decidono di esporsi fin dall'inizio». Nella sede di Addiopizzo, in via Lincoln 131, dove un tempo sorgeva il magazzino del boss della Kalsa, Masino Spadaro, con una botola segreta utilizzata per le fughe, si è tenuto un dibattito sul contrasto alle estorsioni, moderato dal direttore del Giornale di Sicilia, Marco Romano, a cui ha partecipato anche un gruppo di studenti dell’Istituto tecnico industriale Vittorio Emanuele III. Presente Davide Grassi, figlio dell’imprenditore ucciso dalla mafia, che ha offerto una riflessione personale e critica, raccontando di una città che sta cambiando, ma che porta con sé ancora troppe contraddizioni: «Vedo, per fortuna, una Palermo bianca, abitata da chi non accetta il pizzo, e una Palermo nera, fatta da chi continua a pagarlo e aggredisce medici e insegnanti. Il messaggio di mio padre è stato dire la verità, senza nascondersi dietro all'ipocrisia: non basta dire che la mafia fa schifo, bisogna agire in modo antimafioso».

Romano ha sottolineato l'importanza della storica lettera di Libero Grassi e il ruolo del quotidiano nel sostenere chi ha infranto il muro di omertà. «Ci sono tanti momenti che segnano la storia del nostro giornale in questi 165 anni - ha detto il direttore - . Quello del 10 gennaio 1991 è uno dei momenti più importanti perché ha dato voce a Libero Grassi, un uomo tutto di un pezzo consapevole che avrebbe rischiato di dover rinunciare alla propria vita, possibilità che poi si è tragicamente concretizzata. Il racket certamente non è scomparso ma i commercianti sono più coscienti e consapevoli che si può battere questa piaga».

A ricordare come sia profondamente cambiato il contesto sociale e istituzionale rispetto agli anni della lettera di Libero Grassi, è stato il prefetto Massimo Mariani evidenziando però le sfide ancora aperte: «La realtà è diversa rispetto a quegli anni quando Palermo viveva una stagione di sangue e violenza. Ora esistono strumenti e risorse per liberarsi dal pizzo ma, da sola, l'opera encomiabile della magistratura e delle forze dell'ordine non può bastare. Ci sono ancora pseudo imprenditori che si rivolgono agli estortori, non tanto per soggiacere alle loro richieste, quanto addirittura per ottenere il loro sostegno. Ecco perché è fondamentale che i cittadini collaborino attivamente: solo così si può garantire che la lotta al pizzo abbia successo».

Il commissario straordinario per il Coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, Maria Grazia Nicolò, ha ampliato il discorso mettendo in rilievo come «la situazione in Italia è molto variegata. Le denunce continuano ad aumentare soprattutto nelle regioni del Centro e del Sud ma anche in Lombardia abbiamo registrato progressi in questo senso. A differenza del passato, adesso le organizzazioni criminali cercano di appropriarsi di società e negozi per irrompere nell’economia legale: per questo motivo i commercianti devono denunciare chi vuole coinvolgerli mentre i consumatori sono chiamati a una scelta più consapevole». Francesca Mazzocco, magistrato della Direzione distrettuale antimafia, ha rivelato che «sono in tanti quelli che oggi si rifiutano di pagare. È importante che i commercianti capiscano che non sono colpevoli se in passato hanno accettato di versare denaro agli esattori del pizzo. La responsabilità penale, infatti, sorge nel momento in cui si nega davanti agli inquirenti che c’è stata una richiesta estorsiva». Ha portato il suo contributo anche Tano Grasso, fondatore e presidente della Federazione antiracket italiana, che da anni è in prima linea: «Oggi abbiamo una certezza: chi denuncia non è più solo come lo era Libero Grassi grazie anche a una nuova sensibilità verso il fenomeno e a una legislazione, come quella italiana, ritenuta tra le più efficaci a livello mondiale».


La proposta: meglio un fondo di garanzia


Ai due bandi del Comune per assegnare sostegni alle vittime delle estorsioni sono state presentate solamente quattro richieste. Si potevano dare contributi sino a diecimila euro.

Sulla questione, però, interviene Addiopizzo. Secondo l’associazione, però, questo non è un buon indicatore per dire che la situazione è drammaticamente peggiorata.

«Le denunce - spiegano - non sono tante, oltre le 12 vittime accompagnate da Addiopizzo nel 2024. Ma non ci risultano che ce ne siano molte altre». Il regolamento comunale è molto datato, ormai: risale al 2017 ed è stato riesumato dall’amministrazione Lagalla. Ma si tratta, secondo la versione dell’associazione antiracket, di uno strumento sostanzialmente obsoleto.

«Oggi gli imprenditori e i commercianti che si oppongono al racket delle estorsioni più che contributi una tantum chiedono soprattutto che non venga meno l'accesso al credito bancario. Su questo tema - propongono da Addiopizzo - il Comune potrebbe costituire un fondo di garanzia e sensibilizzare gli istituti di credito che non sempre hanno mostrato sostegno a chi suo malgrado si ritrova coinvolto nelle vesti di vittime in fatti di estorsione».

Una proposta che, ora, dunque passa all’attenzione dell’amministrazione comunale che deciderà se accoglierla e - soprattutto - se è fattibile sul piano tecnico e giuridico.

C’è stato un tema parallelo che si è scatenato, ed è quello della gestione dei beni confiscati. Una polemica nata dopo che il consigliere Leonardo Canto ha messo a disposizione a titolo gratuito alcuni professionisti che aiutare le associazioni a presentare le domande per l’affidamento di immobili e appezzamenti di terreno.

«Riteniamo che su questi temi serva una gestione con maggiore trasparenza, affinché davvero il patrimonio immobiliare sottratto alla mafia diventi invece una opportunità di riscatto. I beni sono “bene comune” della collettività, senza colore e appartenenza politica». Questo è il giudizio espresso da Federica Badami segretaria generale Cisl e Virgilio Bellomo, responsabile del coordinamento Politiche per la Legalità della Cisl Sicilia.

Gi. Ma.


GdS, 11/1/2025

Nessun commento: