domenica, gennaio 05, 2025

L’ANNIVERSARIO DEL DELITTO FAVA. L’omicidio di mio padre ha spaccato in due Catania, mai un sindaco alla lapide

Pippo Fava

di Claudio Fava

Anche oggi, a 41 anni dalla morte di Giuseppe Fava, mi sentirò garbatamente chiedere da molti colleghi cosa sia cambiato a Catania e in Sicilia. Risponderò: tutto e nulla. Quello che è cambiato lo sappiamo: una percezione diversa, meno irresponsabile dell'emergenza mafiosa.

Si è diffuso nella nazione un alfabeto civile che tiene insieme, nel proprio ragionamento, il tema del contrasto alla mafia accanto a quello della democrazia. 
Poco o nulla è cambiato sul fronte della verità: che manca. E a questa rapina di verità ci siamo lentamente abituati, come una decima che si deve pagare alla storia. Poco o nulla ancora oggi sappiamo delle mani inguantate che accompagnarono quasi tutti i più osceni delitti di mafia. Non penso solo a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino: vale anche per Piersanti Mattarella, vale anche per Giuseppe Fava.

Poco o nulla sappiamo e, in fondo, poco o nulla reclamiamo: quei morti ci basta piangerli una volta l’anno, e amen. 
Ma oggi, quando mi chiederanno di Fava e di Catania, mi toccherà aggiungere una postilla, un’altra cosa che certamente non è cambiata in questi 41 anni: non ho mai visto davanti alla lapide un sindaco della mia città. Mai. Poco è contata la patria politica dei vari sindaci, sedici in tutto: mai ho incrociato uno di loro quando, alle cinque del pomeriggio di ogni 5 gennaio, la famiglia, gli amici, i catanesi si raccolgono ai piedi della lapide (che vollero e posero — non a caso — gli studenti di Catania, non i suoi amministratori). Ogni anno il sindaco di turno manda coscienziosamente una coppia di vigili urbani in alta uniforme, a volte fa deporre una corona di fiori o invia un accorato messaggio. Ma dei sindaci, con la loro faccia e la loro fascia tricolore, nessuna traccia. In passato qualcuno di loro si è avventurato in visita su quel marciapiede, ma solo la mattina presto oppure dopo, a notte alta, svelto e invisibile come un mariuolo. Nel pomeriggio, durante quel breve minuto di raccoglimento, non li ha mai visti nessuno. 
La morte di Giuseppe Fava ha tagliato in due la città, come una lama di rasoio. La linea di cesura non è la mafia, non sono le complicità: è il disagio di dover guardare dall’altra parte. Di specchiarsi l’una città nell’altra. Di ragionare su cosa sia davvero accaduto. Di affrontare la nostra storia senza tralasciare nulla, miserie, neghittosità, profitti, codardie. 
Tra qualche mese saranno cent’anni dalla nascita di Giuseppe Fava, ma se qualcuno di voi domani si avventurasse in visita in alcuni salotti buoni della città (non nelle periferie del lumpenproletariat ma ospite dell’operosa borghesia cittadina) sentirebbe sollevare su quell’uomo, Fava, e sulla sua morte gli stessi dubbi di 41 anni fa: delitto e di mafia? A Catania? Ma siamo proprio sicuri? 
Io credo che a ciascuno di questi sedici sindaci che per quarantuno anni hanno tagliato nastri, commemorato caduti, celebrato anniversari sia mancato il coraggio di schierarsi tra due città segnate e separate da quel colpo di sciabola. 
Presentarsi in mezzo alla gente il pomeriggio del 5 gennaio sarebbe stato un gesto di senso civile per una parte della città, ma un oltraggio per l’altra. Hanno scelto da che parte stare. 
Credetemi, lo penso, lo scrivo senza acrimonia né rabbia. Dopo tutto questo tempo, oggi che ho quasi dieci anni in più di quanti ne aveva mio padre quando lo uccisero, mi sembra solo una storia grottesca, una roba alla Aureliano Buendia. 
Con una città, la mia, condannata a restare per sempre ingenua e ignara come Macondo, dove il tempo si era fermato e molte cose erano ancora senza nome, al punto da doverle indicare con un dito. 
Ecco, la storia di Giuseppe Fava è una di quelle, un’invenzione che da quarantuno anni i sindaci di turno indicano con il dito, senza sapere ancora come chiamarla.

La Repubblica, 5 gennaio 2025

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