Bianca Stancanelli |
di BIANCA STANCANELLI
Il 12 gennaio 1988, in un agguato tra i più sgangherati che storia di mafia ricordi, venne ucciso a Palermo il democristiano Giuseppe Insalaco, sindaco per 101 giorni nei tumultuosi anni Ottanta. Unico sindaco di Palermo assassinato nel Novecento, ancora oggi, 35 anni dopo, resta una vittima cui è stata resa parziale e reticente giustizia. Una vittima, si direbbe, che Palermo non ama ricordare, benché la sua sia la storia di un uomo che ha provato a riscattarsi da un passato pieno d’ombra, ribellandosi ai padroni della città. Una storia che dimostra come fosse estesa e profonda la rete delle relazioni tra mafia, politica, economia e istituzioni nel tempo in cui la fazione corleonese comandava su Cosa nostra.
Originario di San Giuseppe Jato, roccaforte di mafia antica e potente, entrato in politica dalla porta di servizio, come segretario del ministro dell’Interno Franco Restivo, cresciuto nel grembo della Dc più compromessa, quella di Salvo Lima e Vito Ciancimino, una volta diventato sindaco, nel 1984, Giuseppe Insalaco provò a fare «una rivoluzione», ribaltando il tavolo dei grandi appalti, il più colossale affare palermitano. La pagò cara. Quando fu ucciso, era un uomo allo sbando: espulso dalla politica, in rotta col suo partito, fiaccato da un’inchiesta giudiziaria per corruzione, ma deciso a reagire, raccontando nei processi che lo aspettavano tutto quel che sapeva sui rapporti tra mafia e potere.
La sgangheratezza dell’agguato che gli costò la vita (la Vespa usata dai killer incastrata nel traffico e abbandonata; le pistole gettate a terra nella fuga) è tanto più sorprendente se solo si pensa che l’assassinio venne affidato dal capo di Cosa nostra Totò Riina alla sperimentata cosca dei Ganci, i macellai (letteralmente) della Noce, la borgata di Palermo che – secondo Tommaso Buscetta – il dittatore corleonese aveva “nel cuore”.
Sgangherato l’agguato, più sgangherate le indagini, preoccupate di etichettare dal primo istante la vittima come un personaggio «poco limpido». Benché i killer avessero seminato dietro di sé una scia di indizi, ci vollero otto anni e un collaboratore di giustizia di secondo piano perché ci si decidesse a far luce sul delitto. E tutta la luce che si è fatta ha condotto alla condanna dei killer, non dei mandanti, nonostante uno dei pentiti della cosca della Noce avesse detto con chiarezza che l’assassinio dell’ex sindaco era un favore chiesto a Riina da uomini dei servizi segreti.
Nel 2016, con l’editore Marsilio, ho pubblicato un libro su Insalaco: “La città marcia”. Mi indignava la sorte di quest’uomo, ucciso e sepolto dal fango, dimenticato, cancellato dalla storia di Palermo. Il libro è stata l’occasione per una riscoperta: il Comune di Palermo ha prima installato una lapide nel luogo dell’agguato e nel 2022 gli ha intitolato quel tratto di strada; il Municipio di San Giuseppe Jato gli ha dedicato una targa. Il più illustre dei suoi successori, Leoluca Orlando, che, per essere stato il più longevo sindaco della storia palermitana, molto sa della politica del passato mi disse che Insalaco era stato ucciso «col consenso dei salotti politici» della città.
Sono grata a L’Ora edizione straordinaria che mi offre l’occasione di ricordarlo con una pagina de La città marcia:
… Non era un politico impegnato nel fuoco di una battaglia, come Pio La Torre, il segretario del Pci che si batteva contro la mafia e contro i missili. Non era l’erede di una dinastia, il politico aureolato di carisma, un presidente della Regione siciliana destinato a una brillante carriera nazionale, come Piersanti Mattarella. Non era neppure un quadro di partito in ascesa sulla scena pubblica di Palermo, un politico spregiudicato pronto a spiccare il salto verso il Parlamento nazionale, come Michele Reina, segretario della Dc provinciale. Era un ex sindaco democristiano rimasto in sella 101 giorni come un cowboy in un rodeo, che in quei giorni aveva provato a fare una rivoluzione, ed era stato fatto fuori con brutalità dal potere, bruciato da una storiaccia giudiziaria di truffa e corruzione, fiaccato dall’abbandono del suo partito. Era un perdente intorno al quale era stato scavato un fossato di disprezzo e solitudine e che sognava inutilmente la rivincita. E aveva una particolarità speciale: che aveva attraversato la nera palude del potere e voleva lasciarsela alle spalle lanciando una sfida temeraria, tentando l’azzardo della denuncia.
In quella palude a Palermo sguazzavano politici e mafiosi, burocrati e avvocati d’affari, professionisti e imprenditori. Di tutti questi, chi ordinò di ucciderlo?
Una Corte d’Assise e una d’Appello, con l’ultimo sigillo della Cassazione, hanno detto che fu la mafia a toglierlo di mezzo. Ma fu il potere a espellerlo. Perché aveva osato l’inosabile, aveva sfidato il tabù supremo che la mafia condivide con il potere, qualunque volto il potere assuma: il divieto di cambiare le cose. Insalaco era un traditore. Perché chiunque voglia cambiare, in Sicilia, è un traditore.
Oggi mi dico che se la Sicilia è lo specchio fatato in cui si riflette il futuro dell’Italia, questo cadavere sepolto con troppa fretta e troppo fango deve significare qualcosa. E quel qualcosa è che la storia del potere a Palermo è stata una storia di complici, legati da un patto con il diavolo.
E l’hanno ucciso perché il potere non si lascia processare. Dopo Insalaco, mai più un politico di Palermo ha provato a raccontare il romanzo nero del potere. Democristiano o no, mai più un politico ha tentato quell’azzardo. Insalaco è stato un unicum: un uomo che sembrava deciso a descrivere dall’interno il marciume della città. Un illuso, un pazzo, un ribelle determinato a rischiarare con le torce il cuore di tenebra della politica.
Questo era il cuore della politica italiana, a Palermo: tenebra e marciume, paura e menzogna. Ed ecco che un uomo decide di attraversare quella tenebra impugnando una torcia accesa. E corre e la luce squarcia il buio. Bisogna fermarlo, e per fermarlo bisogna ucciderlo. E sul cadavere rovesciare fango, una slavina di fango, perché tutto si confonda, perché il morto taccia. Perché in Sicilia, recita il proverbio, il morto giace e il vivo si dà pace.
Rileggo i fatti, li metto in ordine: c’è un incastro di coincidenze che colpisce. La fulminea sindacatura Insalaco, dall’aprile al luglio del 1984, quei cento e uno giorni tra l’elezione e le dimissioni, tra il trionfo e la caduta - 101 giorni in pubblico, sotto i riflettori - coincidono con la decisione di Tommaso Buscetta di collaborare con Giovanni Falcone, una decisione segreta, destinata a cambiare la storia di Cosa Nostra.
Mentre Insalaco, come un acrobata sul filo, sfidava in pubblico i padroni di Palermo, un mafioso e un magistrato cominciavano a tracciare in segreto la strada verso il maxiprocesso, l’evento che ha cancellato i troppi anni delle assoluzioni per insufficienza di prove e ha trasformato questo paese in un paese in cui la mafia può essere processata e condannata, anche all’ergastolo.
Ventisette giorni dopo la sentenza del maxiprocesso, Insalaco viene ucciso. Morto lui, ecco che uno dopo l’altro, magistrati, poliziotti, gli eroi civili che l’Italia ama piangere quando muoiono e ignora o combatte finché sono in vita, gli eroi civili che avevano costruito il maxiprocesso vengono dispersi, umiliati, sconfitti, allontanati. Ma non dalla mafia: dallo Stato.
E il primo a essere sconfitto, umiliato è Giovanni Falcone.
C’è un nodo in questa storia, ed è un nodo che non si riesce ancora a sciogliere. È il rapporto che tutti noi, cittadini di questo paese, abbiamo con la verità e con la verità che riguarda la mafia e il potere: i loro legami, le loro complicità, le loro trattative, i loro patti segreti. Giuseppe Insalaco aveva raccontato alcune verità indicibili, altre ancora minacciava di rivelarne. Aveva pronunciato ad alta voce nomi che venivano solo sussurrati, o taciuti addirittura.
Era un ribelle. Contro un potere che tollera solo complici.
Dall'archivio storico de L'Ora, custodito a Palermo presso la Biblioteca Centrale Regionale, le pagine del giornale sull'omcidio Insalaco, con gli articoli di Sandro Tito, Silvia Ferraris, Giuseppe Crapanzano, Francesco Vitale, Etrio Fidora, Nicola Cattedra, Gabriello Montemagno, Sandra Rizza, Giuseppe Di Piazza, Antonella Romano. Poi Bianca Stancanelli
L’Ora, edizione straordinaria, 12/1/25
Nessun commento:
Posta un commento