martedì, gennaio 14, 2025

IL PERSONAGGIO. “Caro Oliviero, se vedi Dio fagli una foto”



di FRANCESCO MERLO

“Chissà i begli articoli che scriveranno gli ipocriti. Mi piacerebbe leggere il rimpianto di quelli che da vivo mi volevano morto. Ma tu definisci la mia vita una risata durata 82 anni”. “Alla fine manca solo, gli dissi, che tu detti il tuo epitaffio”. E lui: “Eccolo: è stato bello” 

La malattia e il fisico disobbediente l’ironia e le parole da ricordare. Il diario privato del saluto al fotografo

E se poi scopri che Dio esiste? «Lo fotografo e te lo mando per WhatsApp». Rideva di tutte quelle interviste «da moribondo» che si era messo a rilasciare:«Quando davvero morirò, di me diranno: ma Toscani non era già morto?». Il faccione smagrito e non rasato, la luce giallo-arancione smorzata, la maglietta stazzonata, l’espressione da “poverocristo”: era ancora e sempre l’Oliviero il regista di sé stesso, di quelle immagini di sé malatissimo che, come tutte le sue fotografie, avevano stupito l’Italia perché contenevano il suo stupore, lo stesso dei condannati alla sedia elettrica che aveva fotografato nelle carceri americane. 


Era lo stupore per il corpo da omone che diventava sempre più esile e traballante, per le matasse di grinze che la malinconia increspava, per i solchi di rassegnazione sulla faccia che si è rasserenata solo alla fine, nell’ospedale di Cecina, dove, sedato dalla morfina, è morto il fotografo più famoso del mondo, il grande italiano che l’Italia non ha capito. L’Oliviero, che era bello avere per amico, se n’è andato dopo avere fotografato lo stupore della propria morte. Manca solo — gli dissi — che tu detti il tuo epitaffio. «Eccolo: “È stato bello” ». Oliviero, quante volte hai fotografato lo stupore? «Un milione, dieci milioni, cento milioni, chissà, tu conti i tuoi respiri?». Trovami uno stupore che, frugando nel passato, stupisce ancora il tuo cuore. «Lo stupore di Andy Warhol quando gli feci assaggiare il panettone e non capiva perché lo mangiamo solo a Natale. Lo stupore di Marco Pannella che, ormai stremato, poco prima di morire si era messo a parlare con i gabbiani che vedeva dalla finestra: “Ciao belli, ciao belli”. Sembrava un capo indiano. Ricordi? L’abbiamo trovato che dormiva e l’ho fotografato con la bocca aperta dal sonno. Anche io adesso sembro un capo indiano». Lo stupore della malattia lo aveva addolcito. Gli aveva tolto il gusto di fare, ogni tanto, l’antipatico. E per esempio, quando usava le stampelle, non diceva più a chi gli chiedeva un selfie che «l’undicesimo comandamento è non scocciare il prossimo »; non spiegava più alle signore incinte che «non c’è nulla di più banale della gravidanza». A volte diventava sgarbato e la gente non capiva, non poteva capire, che era addolorato perché vedeva tatuaggi, unghie laccate, facce rifatte, tacchi 12: «All’Aldo», il grande parrucchiere Aldo Coppola, «che è stato il fratello che la mamma non mi aveva dato — solo sorelle: ho avuto tre mamme — l’idea di abolire i caschi, le torture dello scafandro, gli orrori dei bigodini e delle cotonature, gli era venuta al mare, scoprendo con stupore com’erano più belle le donne quando uscivano dall’acqua, bagnate, liberate e spettinate. Oggi sono tornate a imbruttirsi, si odiano e vandalizzano il proprio corpo. Non può essere questo il femminismo». 
Una volta a Fabrica, nei bellissimi edifici di Tadao Ando, diede le spalle a una manager che gli aveva detto, «wow, che location!»: «Location a chi?». E trascinò con sé Luciano Benetton, «che è stato il compare con il quale non ci fu mai un minimo contrasto, solo la soddisfazione di sentirci sempre l’uno degno dell’altro». Gli dissero, arrabbiati, che aveva un brutto carattere quando, a un tipo che gli aveva chiesto «le dà fastidio il fumo?», rispose «e a lei dà fastidio se scoreggio?». Eppure gliel’aveva spiegato bene, e non sempre lo faceva: «La scoreggia disturba, ma non fa male al prossimo». Oliviero non si meravigliava che, non solo sui social debordanti e senza regole, qualcuno lo svillaneggiava anche dopo che si era ammalato: «Almeno non sono ipocriti. Chissà invece i begli articoli che scriveranno gli ipocriti quando davvero sarò morto. Mi piacerebbe leggere il commosso rimpianto di quelli che da vivo mi volevano morto. Promettimi che scriverai: Oliviero era uno stronzo. E che racconterai la mia vita come una risata durata 82 anni». 
Aveva ragione. Ridere era il suo modo di affrontare il pericolo, le emozioni e lo stupore, «come il Mangiafuoco di Pinocchio che, invece di piangere, starnutisce». L’ho visto ridere sull’aereo in forte turbolenza e pure al mare quando, uscendo dall’acqua, gli cedettero le gambe. Rideva quando gli telefonai dal bar Jolly di Donoratico dove non poteva più venire a mangiare il gelato: «Prendi per me il solito cono di stracciatella e fallo sciogliere al sole». E rideva quando mi diede «i numeri da giocare al superenalotto, quando sarò morto, al tabaccaio di Donoratico» dove un paio di volte avevamo giocato e dove ora li giocherò. 
Per mesi lo stupore della malattia mortale gli aveva persino impedito di memorizzare la parola amiloidosi. «Non mi entra in testa» diceva, lui che parlava cinque lingue. E allora gli portai l’audio di Vittorio Gassman che recitava L’uomo dal fiore in bocca .Bastava sostituire epitelioma con amiloidosi e mettere il cuore al posto della bocca: «Amiloidosi si chiama. Pronunzi, sentirà che dolcezza: amiloidosi. La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in cuore, e m’ha detto: “Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!” ». Ebbene, dopo otto o dieci mesi di quasi totale digiuno e di «non ne posso più», a Capodanno era tornata a Oliviero la forza e dunque lo stupore di vivere. In inglese si chiama the surge ,ed è in medicina la terminal lucidity ,l’ultimo regalo che ti fa la vita. La voce non più impastata era di nuovo squillante e gli venne persino voglia di mangiare tre ostriche, che fu il suo cenone, come nei capodanni che avevamo festeggiato insieme a Parigi io e Hilary e Oliviero e Kirsti, «la donna — mi ripeteva ancora, e con la solita risata d’emozione, quando già sapeva della fine — più bella e intelligente, più generosa e più buona del mondo». Un giorno, alla brasserie Stella, ci accolsero con afflitta costernazione: «Monsieur Toscani, cette année, toutes les huîtres Belon sont malades». 
A Parigi era uno spasso andare in giro con lui, perché lo riconoscevano e lo fermavano. Era più amato in Francia che in Italia dove ancora adesso, per ridimensionarlo o forse per esorcizzare il suo genio urticante, catalogano come “provocazione” lo stupore del neonato attaccato al cordone ombelicale, del bimbo bianco che si nutre al seno nero, della suora che bacia il pretino, del famoso sedere dei jeans Jesus. Quel «chi mi ama mi segua» è come il dito che mostra la strada verso Dio, un indice sentenzioso d’eternità che la gerarchia cattolica nel 1973 condannò come blasfemia ma che un giorno, ormai vicino, onorerà come un’immaginetta. 
In Italia la volgarità ridanciana ancora sghignazza quando vede un pene, una vagina, un sedere, un amore lieve e gentile tra due ragazzi che si tengono per mano, e non si accorge dello stupore della normalità e della spiritualità che ci sono nelle foto che fece agli organi sessuali messi in fila, tutti uguali e tutti diversi. Altro che provocazione, nelle immagini di Oliviero ci sono l’amorevolezza, la dolcezza, i sentimenti forti e fragili della reciprocità e della solidarietà, c’è la potenza dell’arte civile. 
Oliviero non sopportava più che il corpo disobbediente non gli permettesse di alzarsi, di uscire di casa e di trascinarci tutti nelle sue pericolose avventure aeropittoriche in macchina, Pisa-Milano andata e ritorno in giornata a 200 all’ora. Si lamentava che la malattia fosse riuscita dove i carabinieri avevano fallito quando gli ritirarono la patente: «Allora andavo in giro con la mia seconda patente, quella americana, adesso due gambe americane di riserva non ce le ho». E rideva: «Forever young di Bob Dylan ha meritato il Nobel per la Letteratura, ma non per la Medicina». E di nuovo, rideva. E ancora rideva quando, da irregolare che aveva spazzato via i luoghi comuni, smontato i pregiudizi, dissacrato i sacramenti, veniva consacrato negli stessi musei che espongono Francis Bacon e Pablo Picasso. Oliviero rideva perché tra il museo e la strada aveva sempre preferito la strada, e invece adesso, genio dei manifesti murali e dei paginoni sui giornali di carta, gli toccava stare tra i quadri. «Vogliono l’opera omnia, figurati»: l’opera omnia venduta e incorniciata e imbalsamata sul muro di casa. «La foto è snaturata quando è travestita da dipinto o da installazione». E se anche qualcuno riuscisse davvero a raccoglierle, tutte le sue foto non farebbero il “tutto Toscani” per collezione. Ne state sentendo e ne sentirete ancora tante, perché di meravigliose corbellerie sulla fotografia se ne dicono davvero troppe ma, credetemi, sulla foto il pensiero di Oliviero era questo: «La foto è gratis, basta scaricarla da internet, perché la riproduzione di una foto è ancora foto e non la sua patacca come accade con le copie della Gioconda. Una foto della Gioconda non è una copia, non è un surrogato, non è un’imitazione, non è un falso: è una foto. Compri il giornale che la stampa e guardi la foto, la consumi, se ti piace la conservi, ma non compri la foto. Perché la foto è democratica, è di tutti, anche se non a tutti rivela lo stesso segreto». 
E allora, per non fare diventare anche le sue foto-scandalo foto d’arte numerate, firmate e appese al chiodo, quando lo convincevano, a Milano, a Chiasso, a Parigi, a Zurigo, ne faceva proiettare trentamila in ordine casuale — una shuffled playlist — nel piccolo spazio di una mostra che, come il cielo in una stanza della canzone italiana, non aveva più pareti ma immagini, immagini infinite, tutte le foto di Toscani che sempre facevano scandalo perché mettevano sotto gli occhi di tutti quello che nessuno voleva vedere e che ora arredano il mondo. 
La Repubblica, 14/1/2025

Nessun commento: