domenica, gennaio 12, 2025

I DIARI DEL BOSS


Tredici anni di memorie, appunti e riflessioni: sono i quaderni segreti di Matteo Messina Denaro. Un lungo monologo, destinato alla figlia Lorenza, che svela il lato più intimo, ma anche subdolo, di uno dei capiclan più spietati. Il racconto esclusivo e le foto mai viste della latitanza a Verona. La famiglia, la giustizia, l’onore e le amanti: così "U Siccu" descrive la sua storia e la sua verità alla primogenita, che non aveva mai incontrato per 27 anni

di Lirio Abbate

I diari segreti di Matteo Messina Denaro, scoperti durante una perquisizione dopo il suo arresto, portano alla luce un documento unico nel suo genere, di straordinaria importanza, in cui sono raccolti appunti e pensieri annotati dal boss fra il 2003 e il 2016, che adesso si possono sfogliare e leggere. Parliamo di tredici anni di memorie e riflessioni affidate a due quaderni, entrambi con la copertina rigida e illustrati da stampe di opere di Vincent van Gogh, che svelano non solo il lato intimo e personale di uno dei padrini corleonesi più importanti nella storia di Cosa nostra, ma ne documentano anche le formidabili capacità manipolatorie.

La calligrafia di Messina Denaro è estremamente ordinata, in uno stampatello


chiaro, leggibile. I temi che affronta sono personali e intimi, dunque lontani dalle vicende che negli anni della latitanza non sempre sono state indagate dalle inchieste giudiziarie. Analizzo questo diario e lo racconto, riportando le frasi, in un libro.

L'intento, come dichiara il boss introducendo i suoi appunti, è raccontarsi - attraverso, ritengo, un metodo subdolo e manipolatorio

- alla figlia, Lorenza, che per 27 anni non aveva mai incontrato. Mostrandole la vita di suo padre, la sua intimità, la sua verità. Una sorta di lungo e tumultuoso monologo, con lo stile del flusso di coscienza, dal quale si apprendono retroscena mai conosciuti. Dunque, non solo un diario.

Non esiste un tema conduttore, ma solo alcuni punti fermi intorno a cui tutti i ragionamenti, le riflessioni, i pensieri girano vorticosamente. Uno più di altri: il rapporto mai avuto con la figlia Lorenza.

Quello che avrebbe desiderato avere, ma alle sue condizioni e regole. Retrograde e patriarcali, come lui stesso scrive.

A Lorenza, il padre Matteo spiega dunque che non potrà sottrarsi a quanto è inscritto nel dna di famiglia e ai suoi “geni”, definiti «giocattoli difettosi». 




Si deve insomma guardare a questi diari, che “u Siccu” chiamava «i libricini», come a un fiume. Le citazioni, le frasi a effetto — tutto quell’armamentario retorico che oscilla tra narcisismo e sbruffoneria da bullo di periferia — sono le rive che contengono e delimitano il letto del fiume. La corrente che lo spinge è il rapporto con la figlia Lorenza, che ha riconosciuto all’anagrafe solo poche settimane prima di morire, dandole così il cognome di famiglia. 
L’acqua, del resto, è il mondo che il boss vede intorno a sé. Nel suo scorrere, il fiume lascia sul fondale sassi, detriti, se si è fortunati ogni tanto qualche pepita. E proprio come in piccole, scintillanti pepite, capita talvolta nelle pagine dei diari di imbattersi in qualche frase vera. Anche perché ogni volta che la penna di Messina Denaro scrive il nome della figlia, ogni volta che i suoi pensieri tornano a quella ferita che mai si rimargina, il tono cambia, così come cambia l’atmosfera, l’umore. 
Non sappiamo se Messina Denaro voglia dissimulare emozioni e sostanza dei suoi pensieri. Sappiamo, leggendo, che quando spazia tra argomenti diversissimi appare misurato, perfettamente consapevole di cosa vuole dire e di come vuole dirlo. Ma quando la riflessione inciampa nella figlia Lorenza allora quella compostezza salta. I ruoli si ribaltano. Il “padre giudice” diventa imputato. Già, perché anche se non lo scrive esplicitamente, nelle pagine del diario in Messina Denaro serpeggia il dubbio di aver sbagliato. Quello stesso dubbio che, al contrario, mai lo ha assalito nella sua lunga carriera criminale, costellata da orribili ed eclatanti fatti di sangue. “U Siccu” rivendica con soddisfazione, sul diario, quello che ha fatto nella sua vita, senza alcun pentimento. 
Lorenza è insomma la variabile che mette in crisi l’equazione. Perché la figlia è la donna che è riuscita ad arrivare là dove — secondo quanto scrive il boss — un intero Stato ha fallito. In qualche modo, Lorenza è riuscita a piegare suo padre. A imporgli le sue regole. Certo, anche su di lei Matteo Messina Denaro ha cercato di esercitare il suo sinistro fascino, di irretirla con quella sorta di incantesimo che gli permetteva di ottenere fedeltà, rispetto, abnegazione da tutti coloro che gli stavano intorno. Ma con lei ha fallito. 
L’uomo che ha sempre piegato la sua corte di picciotti e di clienti, l’uomo che si vantava che c’era voluto «un intero Stato» per annientarlo perché «la gente comune, chiunque, non sarebbe mai riuscita a scalfirmi», aggiungeva: «Nonostante tutto non ho avuto timore a sfidarlo. Ricordalo per capire chi è stato tuo padre». 
Sono centinaia le riflessioni, i pensieri, i messaggi in bottiglia che Messina Denaro indirizza alla ragazza. E qui il capomafia svela la sua idea della vita: da patriarca, da predatore sessuale, da manipolatore. Illumina una mentalità mafiosa imbevuta di arroganza. Penetra nel suo riserbo per descriversi alla figlia, per narrare il rapporto che non ha mai avuto e che avrebbe voluto avere con la primogenita. E imporsi nella vita della ragazza. 
Tutto per Lorenza, che per 27 anni ha rifiutato di incontrarlo. 
Insomma, un rapporto a distanza, incubato solo e soltanto nella testa del padre e del padrino. Prima dell’incontro. Che avverrà soltanto dopo il suo arresto. In carcere. L’ultima guerra combattuta da Matteo Messina Denaro è dunque contro il suo stesso sangue. «Solo io potevo dirle la verità sulla mia vita, nuda e cruda quale è stata, perché solo io conosco la mia vita e non gli altri che hanno sempre abusato di parlare di me e su di me. Pensavo che glielo dovevo (a Lorenza, 
», annota nel diario. 
In molti passaggi, quella che il boss tratteggia è una realtà parallela, capovolta. Creata ad arte. Perché se c’è un’abilità in cui Messina Denaro eccelle, è proprio quella di saper confondere le acque, di mischiare il falso al vero fino a renderli quasi indistinguibili. La sua arte oratoria, per quanto grezza, brilla di una forza naturale, primitiva. Di quelle, se mai il boss fosse stato non un capomafia ma un frequentatore di salotti televisivi, che lo avrebbe reso un polemista pericoloso, un incantatore di platee. Grazie a un’esibita semplicità dei suoi ragionamenti, che in realtà erano studiatissimi, e molto più complessi di quanto apparissero. Capace di condurre con le parolel’interlocutore su sentieri depistanti. 
L’andamento irregolare del diario, in cui si salta di continuo da un argomento all’altro, senza che al lettore sia mai concessa la possibilità di orientarsi, è funzionale all’effetto complessivo. Il boss si rifiuta di argomentare in modo logico, conseguenziale. Forse perché sa, per istinto, che le sue frasi avrebbero avuto più forza proposte così: come un elenco ininterrotto di singole enunciazioni. Preferiva dispensare quelle che riteneva perle di saggezza per sembrare più autorevole. 
Del resto, Matteo Messina Denaro non cercava la coerenza. E gli va riconosciuto che non cercava nemmeno la verità. Anche perché, in fondo, era convinto che non esistesse una sola verità. Esisteva, di sicuro, la sua verità. Ed era quella che voleva presentare alla figlia, e a se stesso. 
A due anni dall’arresto a Palermo (16 gennaio 2023) i suoi appunti ci portano dunque dentro i suoi rapporti con la famiglia di originee con il padre (anche lui capomafia deceduto), con le amanti, le escort, il sesso e gli amici; con la giustizia, i processi, i giornalisti, l’onore, la religione, la violenza, la vendetta e l’uso delle armi. La vita, la morte, le convinzioni personali, le figure di riferimento. Messina Denaro mette a nudo la sua intimità. E i suoi appunti parlano di donne e alle donne della sua vita: oltre alla figlia, parla della madre della ragazza, della suocera, delle sorelle, della nipote, delle amanti, della figlia dell’amante, delle escort e delle ragazze straniere con le quali si è intrattenuto. 
«Ho conosciuto l’amicizia vera, dentro c’era tutto, affetto, rispetto, onore, orgoglio», scrive. Mai prima di adesso un capomafia di questo livello si era spinto tanto a svelare a modo suo il proprio intimo. 
L’idea che abbiamo di Matteo Messina Denaro è inevitabilmente legata alla sua latitanza, all’arresto effettuato dai carabinieri coordinati dal procuratore Maurizio de Lucia e dall’aggiunto Paolo Guido, o a uno dei crimini sanguinari che ha commesso. Lo vediamo con i suoi occhiali e la sua espressione beffarda in uno degli identikit che in passato gli investigatori avevano diffuso e adesso attraverso i diari sappiamo che lui se ne lamentava. Il suo narcisismo gli faceva dire che non ci avevano capito niente, che lui non era così vecchio e brutto come veniva disegnato, era molto più bello, e per dimostrarlo aveva aggiunto ai libricini anche una serie di foto inedite e di primi piani che lo ritraevano in posa davanti all’Arena di Verona. 
Quelle foto portano la data del 20 maggio 2006, quando lui è in vacanza nella città di Giulietta e Romeo. Il boss indossa abiti di marca, scarpe griffate. Porta una fede al dito della mano sinistra. Si sa, era un uomo vanitoso, e al suo aspetto fisico teneva molto. Si reputava dotato di un fascino magnetico, che addirittura faceva tremare le donne e non poteva accettare l’idea che sua figlia credesse davvero che suo padre fosse così, come lo dipingevano gli identikit delle forze dell’ordine. Non voleva che Lorenza, che pensava di non incontrare mai più nella vita, avesse di lui quell’immagine realizzata dalla polizia. E in effetti non aveva tutti i torti, perché di somiglianze tra le ricostruzioni del volto disegnate dagli inquirenti negli anni della latitanza e il vero Messina Denaro ce n’erano ben poche. Solo una cosa quegli identikit avevano centrato in pieno: il mezzo sorrisetto sarcastico che ne segnava l’espressione. Un sorriso molto simile a quello dell’altra sua immagine iconica, la foto dopo l’arresto, quando aveva ancora indosso il montone orlato di pelliccia. 
«Ti ricordi quando ti ho mandato dei vestiti, costumi da bagno, un paio di pantaloni bianchi con una maglia a righe orizzontali blu e bianche, stile marinaretto. C’erano i pattini a rotelle e c’erano anche dei foulard Bulgari, non per te. Ebbene, tutte quelle cose le comprai io personalmente il giorno che feci quelle foto in quella medesima città (Verona, 
nda). 
Infatti erano di buon gusto. Tu avevi quasi dieci anni ed eri il mio mito… allora. E credimi, io non avevo mai avuto miti, e non ne ho tutt’ora, non più», così scrive il boss alla figlia. 
Di larghi tratti del periodo in cui era ricercato non sappiamo quasi nulla. Ricomporlo è dunque un’impresa ai limiti dell’impossibile. Un lavoro che si è sobbarcata la procura di Palermo e ancora lontano dal considerarsi chiuso. Perché 30 anni di latitanza sono un tempo infinito. Della visione «edulcorata » che vuole presentare alla figlia, della sua presenza a Verona possiamo solo adesso avere conferma perché ci sono le foto che il boss ha fatto stampare e allegare al diario. La data impressa sul retro di quelle immagini — 20 maggio 2006, come detto — è annotata a mano. Quaranta giorni prima era stato arrestato Bernardo Provenzano. Ma nello stesso giorno in cui “u Siccu” si mette in posa e fa scattare le foto a Verona da qualcuno o qualcuna che lo accompagnava, a Palermo — quando si dicono le coincidenze — l’allora presidente della Regione Salvatore Cuffaro, all’epoca sotto processo per favoreggiamento alla mafia, dichiara durante la presentazione di un libro a Villa Igiea: «Sono preoccupato per il fatto che si tenti di costruire nell’immaginario comune un altro grande boss, come potrebbe essere Messina Denaro». Come a dire, è stato preso Provenzano, adesso non create altri mostri o mafiosi, perché non ve ne sono. Si sbagliava. 

La Repubblica, 12 gennaio 2025

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