Giovanni Mercadante |
Intervista all’ex deputato regionale di Forza Italia condannato per mafia
di Salvo Palazzolo
«Quella mattina del 6 gennaio 1980 mi torna spesso in mente – ricorda il dottore Giovanni Mercadante mentre sorseggia un cappuccino, al tavolino di un bar del centro – ero in auto con moglie e figli, stavamo tornando a casa dopo la messa dell’Epifania: da via Tommaso Gargallo svoltai su via Libertà e in quel momento sentii dei colpi.
Qualche istante dopo, vidi un giovane che sparava contro un’auto, era piazzato dal lato opposto a quello di guida. Capii subito, sapevo che lì abitava il presidente della Regione».
Il dottore Giovanni Mercadante è il primo testimone dell’omicidio di Piersanti Mattarella, 45 anni fa lo scrisse il cronista Angelo Mangano su un piccolo quotidiano di Palermo, Il Diario, ma nessuno l’ha mai convocato. Nessun poliziotto, nessun magistrato. Nonostante fosse già allora un medico radiologo molto in vista in città.
Oggi, Giovanni Mercadante è anche un ex deputato regionale di Forza Italia che ha attraversato l’inferno di Palermo e ora sta provando a uscirne dopo una condanna per associazione mafiosa: «Mi hanno rovinato la politica – sussurra – e la leggerezza nei rapporti con mio cugino Tommaso Cannella, condannato per essere un mafioso di Prizzi, ma per me era solo un parente di mia madre, a casa sua sono cresciuto».
Fa una pausa e dice ancora: «Ho fatto degli errori, lo ammetto, e ho pagato un prezzo altissimo, più di altri: nove anni di carcere, scontati in dieci penitenziari diversi». La sentenza della Cassazione dice che Giovanni Mercadante sarebbe stato medico e politico a disposizione dei boss Corleonesi.
«Ma in corte d’appello una prima volta ero stato assolto – replica – potrei parlarle di uno dei miei accusatori, Massimo Ciancimino, poi condannato per essere un calunniatore».
Mi dica, innanzitutto, di quella mattina del 6 gennaio 1980. Cosa vide?
«Mentre svoltavo su via Libertà e sentivo sparare, un vigile urbano, un uomo alto e robusto, si infilò di corsa dentro Villa Pajno, la residenza del prefetto, e sbarrò il cancello. Intanto, il killer continuava a sparare. Lo ricordo come se fosse ieri».
In quel momento dove si trovava esattamente?
«Dopo aver girato da via Gargallo, ero ormai in via Libertà, di fronte Villa Pajno. Fra la mia auto e il killer c’era in mezzo una Fiat 127 color panna, accostata al marciapiede.
Era l’auto guidata dal complice».
Come ricorda il sicario?
«Indossava un Husky azzurro, jeans, scarpe da ginnastica bianche e un cappellino colorato. Aveva corporatura esile e statura media.
Mi colpì una cosa soprattutto: si muoveva come un grillo, conun’agilità e una velocità spaventose. Dopo aver finito i colpi, si infilò nella 127 e l’auto sfrecciò via».
Lei cosa fece?
«Istintivamente, mi misi ad inseguire la vettura dei killer. Poi, mia moglie iniziò a preoccuparsi, e quando l’auto girò a sinistra, in via Mondini, mi fermai».
Cosa accadde dopo?
«Tornai immediatamente sul luogo del delitto. Corsi ad aprire uno sportello di quell’auto con i finestrini rotti dai proiettili: la moglie del presidente era rannicchiata su se stessa e il presidente era riverso su di lei, come se avesse voluto proteggerla dai proiettili del sicario. In quel momento arrivarono Sergio Mattarella, il fratello del presidente, e Liborio Giuffrè, allora ordinario di Pediatria, che abitavano poco distante. Insieme, tirammo fuori il corpo per caricarlo su una volante della polizia che intanto era arrivata. In quel momento mi accorsi del sangue che colava dalle spalle di Piersanti Mattarella, il viso era intatto.
Conservo ancora i pantaloni insanguinati di quel giorno».
Dottore Mercadante, posso chiederle se ha riconosciuto nelle foto pubblicate in questi giorni, di Antonino Madonia e Giuseppe Lucchese, ora indagati dalla procura di Palermo, il killer che vide il 6 gennaio 1980?
«Quel giovane che sparava non lo vidi in faccia. Però una cosa posso dirle: dopo essere uscito dal carcere, mi sono voluto documentare su questa vicenda, andando a sfogliare i giornali dell’epoca: Giusva Fioravanti è alto. Sono convinto che non era lui in via Libertà».
Vide altri componenti del commando quella mattina?
«Non mi accorsi di nessun altro».
Com’era la Palermo di quegli anni?
«Una città governata da altri, non dalla politica. Me lo diceva sempre un amico, Peppuccio Insalaco, che si era messo in testa di cambiare la politica al Comune. Ma non poteva sfidare i carri armati con la spada di legno, era scritto che sarebbe stato ucciso».
Magari lo conosceva pure lui il suo destino terribile, ma non si è tirato mai indietro, continuando a testimoniare il suo impegno per il cambiamento di Palermo.
«Però è stato ingenuo, parlava di queste cose al Circoletto di Palazzo De Gregorio, o in altri salotti, e poi qualcuno andava a riferire».
Era una città cannibale, quella. E in parte lo è ancora.
«In quegli anni, un pezzo di borghesia palermitana era così: pagava la politica e la mafia per il proprio tornaconto. E poco importava che i mafiosi si chiamassero Stefano Bontate o Totò Riina, quando caddero i primiarrivarono gli altri: quella città voleva solo punti di riferimento per continuare a costruire palazzi. E, poi, c’era pure un’altra componente: certi mafiosi facevano davvero paura. Me li ricordo nel 1982 Angelo Siino e Giovanni Brusca nel mio centro di Angiotac, che minacciavano gravi conseguenze se l’imprenditore edile che aveva realizzato la mia struttura non avesse pagato».
Eppure, in questa città tante persone hanno detto no alla mafia, pagando con la vita le loro scelte.
«Loro erano eroi, io come tante altre persone a Palermo non lo siamo. Abbiamo avuto anche la colpa di non avere capito cosa stava accadendo per davvero».
È importante che oggi lo ammetta, immagino non sia facile per lei.
«Dentro l’inferno del carcere, dove ho vissuto in condizioni drammatiche, mi sono passati davanti i volti di tante persone». Si commuove, prende un fazzoletto.
«Mi scusi», dice. Riprende: «Ho ripercorso le chiacchierate che mi facevo con il giudice Cesare Terranova al Circoletto. O con il procuratore Gaetano Costa, negli incontri organizzati da Maurilio Catalano nel suo atelier “Arte al Borgo”. Loro immaginavano una città bellissima, senza la mafia».
Com’è finito un medico radiologo brillante come Giovanni Mercadante nell’inferno di Palermo?
«Guardi che il padre putativo di mio padre, Vito Mercadante, era un sindacalista coraggioso di Prizzi, che si batteva contro i mafiosi.
Questa cultura ho respirato a casa mia. Ma ammetto di avere respirato anche un’altra cultura, quella mafiosa, di cui era espressione il cugino di mia madre, Tommaso Cannella».
Oggi, Palermo rischia di tornare a quel passato drammatico?
«Per fortuna i mafiosi di un tempo non ci sono più. Non ci sono più i mafiosi delle stragi e i mafiosi che si comportavano da padroni grazie a sponde importanti nei palazzi della politica. Per questa liberazione dobbiamo dire grazie ai magistrati, per il lavoro che hanno fatto.
Dobbiamo dire grazie anche a un ex sindaco come Leoluca Orlando, che ha contribuito in maniera determinante a cambiare la cultura di questa città. Devo dirgli grazie pure per altro: alla maturità, al Gonzaga, copiai le sue versioni».
Cosa c’è nel suo futuro?
«Ho deciso di iniziare a raccontarmi. Oggi, non ho più paura. E ho capito tante cose, una soprattutto: voglio stare lontano dalla politica siciliana, che continua ad essere fondata sul clientelismo. Adesso, anche Palermo deve iniziare a guardarsi dentro per davvero».
La Repubblica Palermo, 10 gennaio 2025
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