sabato, gennaio 04, 2025

Contro la democrazia, il discorso del 3 gennaio del 1925 di Benito Mussolini

Cento anni fa il capo del fascismo rivendicò in parlamento l’uso politico della violenza, aprendo definitivamente la via della dittatura


Ritratto del dittatore Benito Mussolini

Foto: Cordon Press


Simone Cosimelli

«L’opera è al Governo. E il Governo l’ha già l’iniziata». Scrisse così Enrico Corradini, senatore del Regno d’Italia e uno dei massimi riferimenti del nazionalismo italiano, nel primo numero del gennaio 1925 di Gerarchia, la rivista teorica del fascismo, insistendo sul fatto che l’autoproclamata rivoluzione delle camicie nere fosse inarrestabile, anche grazie all’idea di costruire uno «Stato forte». 

In quegli stessi giorni Benito Mussolini, leader del Partito nazionale fascista (PNF) e presidente del Consiglio in carica, nonché direttore di Gerarchia, portava a termine un passaggio cruciale per completare il suo assalto al potere, fuori dalle colonne stampate delle pubblicazioni cartacee.

Il 3 gennaio 1925, cento anni fa, Mussolini tenne infatti un discorso alla Camera dei deputati affrontando direttamente le critiche ricevute dopo il caso Matteotti, accusando le opposizioni di voler organizzare una sedizione e rivendicando il pieno controllo sull’Italia. Pur non rappresentando una cesura così netta, l’intervento fu essenziale nella traiettoria politica del fascismo e accelerò la piena istituzionalizzazione del regime. Fu il tramonto definitivo del vecchio corso e l’inizio del nuovo. L’annuncio della dittatura.


L’affondo di Mussolini

Dopo la marcia su Roma dell’ottobre 1922, un’iniziativa eversiva di assoluta centralità, la trasformazione autoritaria dell’assetto delle istituzioni italiane era proceduta in modo spedito. A seguito del tumulto del primo dopoguerra, in un’Italia spaccata dalle lacerazioni interne, il fascismo era emerso facendo dell’uso politico della violenza una pietra angolare e rintuzzando l’avanzamento dirompente di classi e ceti lavoratrici a lungo subalterni, arrivando al vertice dell’esecutivo col sostegno di gran parte dell’Italia monarchica, borghese e conservatrice.


Benito Mussolini durante la marcia su Roma

Foto: Illustrazione italiana (CC)

Nel corso dei mesi il governo Mussolini si era quindi consolidato. E lo aveva fatto tollerando o addirittura promuovendo azioni squadristiche localizzate, utilizzando in modo arbitrario i poteri degli apparati pubblici e alternando una retorica estremamente polarizzante a proclami improntati al più intransigente legalitarismo. Secondo Mussolini, del resto, il fascismo aveva una missione storica. «È la primavera, è la resurrezione della razza – disse nel corso delle celebrazioni per il primo anno dalla marcia su Roma –, è il popolo che diventa nazione, la nazione che diventa Stato, che cerca nel mondo le linee della sua espansione». In questo quadro, però, l’efferato assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti il 10 giugno 1924 – dopo la denuncia dei soprusi e dei brogli nel corso delle elezioni nazionali – sembrò risollevare opposizioni e minare la leadership dello stesso Mussolini.


Messo alle corde, soggetto a spinte a tratti disgreganti e incalzato dalla Milizia volontaria di sicurezza nazionale (MVSN), la milizia armata fascista incorporata nelle forze armate, Mussolini decise allora di andare fino in fondo. Quasi certo di poter incassare la fiducia del re, Vittorio Emanuele II, di avere l’appoggio di settori rilevanti del mondo economico, di non trovare ostacoli insormontabili tra le file dell’esercito, così come di essere riuscito a instaurare un rapporto di reciproca comprensione con la Chiesa cattolica, Mussolini si convinse che fosse possibile squarciare il velo della democrazia liberale – già piuttosto malconcia – senza incorrere in grandi rischi. Di conseguenza, ruppe gli indugi. 


Parole come pietre

Già incassata la fiducia del parlamento, Mussolini si presentò alla Camera dei deputati il 3 gennaio 1925 scommettendo sul fatto di aver già vinto. Di poter colpire senza essere colpito. Di poter dare maggior concretezza a un progetto politico francamente e integralmente antidemocratico (un progetto politico, quello fascista, del quale lui stesso era il terminale ultimo, ma non l’unico promotore). 


Mussolini e i ministri fascisti seduti nei banchi del governo alla Camera dei deputati del regno d'Italia. Foto: Pubblico dominio

Fatta una lunga introduzione, nella quale respingeva le accuse rivolte al partito fascista e accusava a sua volta gli antifascisti – la maggior parte dei quali aveva disertato l’aula in segno di protesta nei mesi precedenti – Mussolini cercò d'intimorire i presenti e domandò provocatoriamente se qualcuno, fuori o dentro l’aula, avesse intenzione di avvalersi dell’articolo 47 dello Statuto albertino, cioè il documento costituzionale ufficiale del Regno d'Italia, secondo il quale la Camera – l’unica elettiva, allora – poteva portare i ministri del re «dinanzi all’Alta corte di giustizia».


Paragonò quindi le manovre delle opposizioni alla più pericolosa «sedizione» e disse di voler assumere su di sé «la responsabilità politica, morale, storica» di tutto quanto avvenuto negli ultimi anni. «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico, morale, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento fino ad oggi», affermò perentorio. In questo modo difese, e anzi rivendicò, le violenze compiute dai fascisti (compreso quelle su Matteotti, dunque), minacciò i propri avversari – ormai equiparati a veri e propri nemici dell’Italia – e assicurò che l’esecutivo non sarebbe caduto; che indietro non si sarebbe più tornati. «L’Italia, o signori – sostenne Mussolini –, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa; gliela daremo con l’amore, se è possibile, o con la forza se sarà necessario».


La capacità di Mussolini di trasformare un momento di difficoltà in un’inaspettata opportunità, se diede prova di una non comune abilità politica, confermò soprattutto quanto profonda fosse la degenerazione del confronto tra partiti, quanto deboli si fossero rivelati i meccanismi di difesa delle istituzioni parlamentari e quanto efficace fosse la strategia fascista messa in atto nel dopoguerra, basata su una combinazione spregiudicata di uso della violenza e tessitura di relazioni, allargamento della repressione e ricerca del consenso. 

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La libertà infranta


Ritratto di Gaetano Salvemini: foto pubblico dominio



Dopo il clamoroso delitto del deputato socialista, nel 1924, si assistette a un’ulteriore evoluzione del quadro politico nel 1925. Secondo un appunto di Gaetano Salvemini – intellettuale che di lì a qualche anno divenne uno dei più acerrimi avversari del regime, pur avendo all’inizio sottovalutato il fascismo – il discorso di Mussolini segnò innanzitutto l’uscita da una scenario ambiguo e drammatico; uno scenario caratterizzato «dalla più assurda contraddizione tra parole e fatti, teoria e pratica, legge e governo».

Dopo la marcia su Roma e prima di quel momento, infatti, l’ordine democratico era stato sistematicamente violato dalla stessa forza politica che, governando il Paese, aveva il compito di difenderlo. Da un lato, il partito fascista si era proclamato «rappresentante di tutta la nazione», aveva avviato un’azione massiccia di fascistizzazione delle istituzioni, sottoposto la stampa a vincoli sempre più stringenti e privato gli antifascisti dei «diritti personali e politici». Dall’altro, però, l’Italia era rimasta un Paese in cui il pluralismo partitico e la libera circolazione delle idee esistevano ancora e tutta la cittadinanza, sulla carta, godeva delle stesse libertà. Soltanto dopo la fine della crisi – una crisi seguita con interesse anche a livello internazionale – la situazione cambiò. Pur senza toccare lo Statuto albertino, si giunse allora, nella penisola, alla «rottura aperta anche con gli aspetti formali del vecchio regime democratico». 


Le parole di Mussolini chiusero così il lungo, tormentato e insanguinato dopoguerra italiano, decretando l’inizio della fine della lotta politica in Italia; l’inizio della fine dello Stato liberale e il drastico arresto del processo di democratizzazione ancora in essere. Mussolini si presentò sia come il leader carismatico del fascismo, capace di orientare la violenza squadrista per raggiungere i propri obiettivi, sia come il politico navigato in grado frenare il radicalismo del PNF per imporre una stabilizzazione sociale e proiettare l’Italia verso il futuro. Sotto questo profilo, l’ambizione liberticida del fascismo venne sostanzialmente accettata anche dalla vecchia classe dirigente come soluzione non effimera per contenere e controllare – dall’alto e in modo verticistico – tutte le articolazioni e le contraddizioni di una complessa società di massa nel pieno del XX secolo. Il che consentì a Mussolini, attorno al quale iniziò a formarsi una vera e propria cultura fascista di stampo gerarchico, d'instaurare una dittatura senza il bisogno di rovesciare gli equilibri dominanti, ma semmai agevolando il processo di convergenza di vari e vasti interessi costituiti verso le nuove strutture di comando. Come ha scritto lo storico Marco Palla: «La svolta del 3 gennaio 1925 permise a Mussolini di consolidare i rapporti con il re, con l’esercito, con gli industriali, le forze che – accanto al partito e alla Milizia – lo avevano prescelto nel 1922 e non lo avevano abbandonato nel 1924».

Si ebbe così, in seguito, il rimescolamento e il compattamento dell’esecutivo, la definizione di un piano organico di smantellamento delle garanzie poste a fondamento delle istituzioni liberali e l’emanazione delle cosiddette leggi fascistissime, una serie di provvedimenti fortemente repressivi. Iniziò una fase nuova, aperta dal tentativo fascista di porre le basi per la progressiva edificazione di uno Stato totalitario dal volto inedito, lo Stato fascista. Un esperimento antidemocratico che rese l’Italia, per oltre due decenni, un laboratorio a cielo aperto.

Storica, (National Geoghaphic, 03 gennaio 2025

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