Vincenzo Agostino e la moglie ad una manifestazione
di Salvo Palazzolo
La decisione della corte d’assise, il poliziotto del commissariato San Lorenzo ucciso il 5 agosto 1989 era impegnato nella ricerca dei latitanti, ma venne tradito, non si sa ancora da chi. Il nipote, Nino Morana: “Scotto collabori per svelare i misteri che ancora restano”
Oggi, papà Agostino avrebbe tagliato la sua barba bianca: «Lo farò quando arriverà giustizia», ripeteva. L’aspettava la condanna del boss Gaetano Scotto per l’omicidio di suo figlio Nino e della nuora Ida Castellucci, incinta di quattro mesi. La condanna all’ergastolo del capomafia dell’Arenella è stata pronunciata dalla corte d’assise presieduta da Sergio Gulotta alle 17.15 del pomeriggio, dopo sette ore di camera di consiglio nell’aula bunker di Pagliarelli. Papà Vincenzo Agostino non c’è, è morto il 21 aprile scorso: «Ma è come se fosse qui con noi», sussurrano commossi la figlia Flora e il nipote Nino Morana mentre abbracciano don Luigi Ciotti. Ha gli occhi lucidi anche la
procuratrice generale Lia Sava, che ha sostenuto l’accusa assieme ai colleghi sostituti Umberto De Giglio e Domenico Gozzo (oggi alla Direzione nazionale antimafia). Ergastolo a Scotto, ritenuto il “mandante e l’esecutore” del delitto di Agostino. Assolto invece dall’accusa di favoreggiamento un testimone di quel drammatico pomeriggio, Francesco Paolo Rizzuto, come chiedeva la stessa procura generale.Il duplice omicidio
Restano i misteri di una storia mai chiarita fino infondo, Agostino era ufficialmente solo un semplice poliziotto del commissariato San Lorenzo, addetto alle Volanti, ma fuori dal servizio faceva parte di una squadra che si occupava di un’attività molto delicata, la ricerca dei grandi latitanti. Per conto di chi non si è mai scoperto: il Sisde (il servizio segreto civile) e il Sismi (il servizio segreto militare) hanno negato che fosse un loro collaboratore; per certo, Agostino cercava latitanti con un suo collega che di tanto in tanto veniva aggregato dalla questura de L’Aquila alla squadra mobile di Palermo, si chiama Guido Paolilli. E’ lui l’uomo del mistero, sospettato di avere distrutto gli appunti che Nino Agostino teneva a casa.
«La verità sulla morte di mio figlio e di mia nuora è dentro lo Stato», ripeteva Vincenzo Agostino, il padre di Nino, l’uomo diventato il simbolo delle battaglie per la verità: «Finchè non avrò piena giustizia non mi taglierò la barba», aveva detto nei giorni del delitto e l’ha ribadito poco prima di morire, nell’aprile scorso. Papà Vincenzo non aveva mai smesso di chiedere verità e giustizia, nell’aula bunker dove si è celebrato il processo si era presentato per l’ultima volta il 20 febbraio: stava già male, si muoveva a fatica, ma non volle mancare all’udienza in cui la procuratrice generale Lia Sava e il sostituto Umberto De Giglio chiesero la condanna per il boss Gaetano Scotto. Quel giorno, la procuratrice Sava disse anche altro, per la prima volta: «Abbiamo l’obbligo morale di chiedere scusa a quest’uomo», scandì. «Scusa per il troppo tempo trascorso dal 1989 ad oggi, perché 35 anni sono davvero tanti se passati senza una verità processuale che, se non è sufficiente a riparare dal dolore che non andrà mai via, serve per rendere giustizia». Papà Vincenzo era commosso. «Spero che Scotto venga condannato per fare piena giustizia».
Il processo
L’anno scorso, la corte d’assise d’appello di Palermo ha ribadito la condanna all’ergastolo per il capomafia di Resuttana Nino Madonia, pure lui ritenuto fra i mandanti del delitto. Ma il cuore dell’indagine è attorno a Scotto. «La verità che cerchiamo è dentro lo Stato», ribadiva papà Vincenzo. E Scotto è ritenuto dall’accusa una sorta di trait d’union fra Cosa nostra e ambienti deviati delle istituzioni.
Della squadra di Agostino, a caccia di latitanti, avrebbe fatto parte anche Emanuele Piazza, pure lui ucciso dai boss, e forse anche l’ex poliziotto Giovanni Aiello, “faccia da mostro”, morto per un infarto nel 2017. Questa attività riservata avrebbe portato Agostino ad avere rapporti pericolosi con i Galatolo e i Madonia. In un’azione di doppio gioco, per carpire notizie vere sui boss. Dentro quella palude di Palermo che ruotava attorno a vicolo Pipitone, la roccaforte dei Galatolo, l’agente avrebbe scoperto che altri poliziotti erano invece davvero corrotti. Lo aveva raccontato vent’anni fa il pentito Oreste Pagano, ma era rimasto il giallo: «Agostino voleva rivelare i legami della mafia con alcuni componenti della questura di Palermo». Pagano l’aveva saputo in Canada, al matrimonio di un esponente della famiglia Caruana: «Lì mi presentarono Scotto, dissero pure che la moglie del poliziotto era a conoscenza delle rivelazioni che il marito poteva fare». Chi tradì Agostino? Chi scoprì che voleva far saltare il suo doppio gioco per denunciare i veri collusi? Probabilmente, Agostino voleva parlarne con il giudice Falcone, c’è traccia di un incontro nelle indagini. Di sicuro, dopo l’omicidio, «da una parte il questore di Palermo avalla con la sua autorevolezza la versione, rispondente al vero, che quello di Agostino è un omicidio di alta mafia – hanno scritto i magistrati nel loro atto d’accusa – dall’altro, il capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera depistava le indagini sulla inconsistente pista dell’omicidio per questione di donne». Giovanna Galatolo, oggi collaboratrice di giustizia, sentì anche dell’altro nei discorsi del padre: «Pure i Servizi volevano morto Agostino». E Nino venne tradito. Dice oggi Nino Morana: «Scotto collabori per svelare i misteri che ancora restano».
La Repubblica, 8 ottobre 2024
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