domenica, settembre 15, 2024

PADRE PINO PUGLISI: UN SORRISO LIBERANTE, UN ESEMPIO ANCORA VIVO, UN SANTO DEL NOSTRO TEMPO


GIUSEPPE LUMIA

Padre Puglisi non era il classico prete che in quegli anni puntava il dito contro le mafie con libri, interviste e convegni. Aveva scelto invece un approccio che investiva tutto sulla formazione delle coscienze e su una spiritualità in grado di diffondere un amore di liberazione. Il suo corpo, la sua fede e la sua intelligenza comunicavano e aggregavano.

L’ho conosciuto quando noi giovani dirigenti della Fuci della Diocesi di Palermo dovemmo individuare il nostro nuovo assistente spirituale. Tenevamo moltissimo alla nostra laicità, autonomia e responsabilità. Avevamo bisogno pertanto non di un prete protagonista, ma di un sacerdote autentico, in grado di aiutarci in un profondo cammino di fede. Bastò poco per convincerci che Padre Puglisi era la persona adatta. Lui si dichiarò subito disponibile e la scelta non poté essere migliore.

Si avviò così un percorso che ha intersecato due generazioni di fucini: la prima, dopo la Fuci, maturò un impegno nel Volontariato, soprattutto nel MoVI; la seconda lo seguì quando egli decise di assumere la rischiosa responsabilità di Parroco di San Gaetano nel quartiere di Brancaccio.

La mafia, nel frattempo, teneva sotto il tacco i quartieri popolari, colludeva con i potenti e colpiva chi, soprattutto nelle istituzioni e nella società, si ribellava al giogo mafioso. La guerra di mafia imperversava e la reazione della società civile cresceva. Nella Chiesa il cammino arrancava, almeno quello sotto il profilo educativo, sociale e culturale.

Avevamo scelto di agire contro la mafia curando in modo particolare questi profili, che ci erano propri e che erano consoni anche al modo di pensare e di agire di Padre Puglisi. Avevamo promosso infatti un impegno che si allargava in tutto il Sud e sul piano nazionale: lo chiamavamo “socializzare il territorio” nella lotta alle mafie.

Avevamo pure preso contatto con la Commissione Antimafia di allora per presentare questo tipo di approccio. La mafia purtroppo arrivò prima, ma il nostro cammino non si è fermato. La storia di Padre Puglisi ha raggiunto milioni di giovani e continua a seminare idee e progettualità.

A trent’anni dalla sua morte, sento il bisogno di dedicargli un ricordo, attraverso l’esperienza che ho potuto vivere direttamente con lui.


GIUSEPPE LUMIA


Siamo a ben trent’anni dall’indimenticabile sorriso con cui Padre Pino Puglisi affrontò gli esecutori della sua condanna a morte. Un sorriso disarmante, che ha messo in crisi perfino consumati killer mafiosi del calibro di Salvatore Di Grigoli e Gaspare Spatuzza.

Un sorriso che sapeva accogliere promuovere amore e liberazione.

Un sorriso non arrendevole e accomodante, tipico dei sempliciotti, ma tutt’altro, sempre consapevole e intelligente, tipico degli uomini impegnati e pieni di fede.

Innanzitutto, mi sento di fare un’affermazione che non deve apparire scontata e paradossale: Padre Pino Puglisi credeva in Dio e nel Prossimo. Sì, quando ci incontrava nelle riunioni di formazione, durante gli esercizi spirituali o nei dialoghi a tu per tu, nelle celebrazioni religiose, le sue parole erano autentiche, espressione coerente della sua profonda fede: una fede solida come la roccia, aperta senza paure al dialogo, pronta alla lotta alle varie ingiustizie, ispiratrice di percorsi di cambiamento interiori e sociali, sempre in ricerca condivisa di cieli e terre nuove.

È stato un “figlio autentico del popolo”. È nato nel 1937, lo stesso giorno che fu ucciso, il 15 Settembre, nel quartiere umile di Brancaccio, da una famiglia onesta e semplice, il papà calzolaio, la mamma sarta. Brancaccio è un quartiere popolare di Palermo carico di contraddizioni e di potenzialità. Padre Puglisi sapeva infatti quanto erano radicate e pericolose le contraddizioni, così pure come era alla portata educativa e sociale stimolarne le potenzialità.

Non era il tipo che si tirava indietro e quindi lui stesso avanzò la richiesta, nel Settembre del 1990, di ricoprire il ruolo vacante e difficile di Parroco di San Gaetano. Sapeva a quali rischi poteva andare incontro, ma avvertiva dentro la consapevolezza che l’amore verso Dio e il Prossimo deve incarnarsi ed esprimersi in relazionesimo e fraternariato, diremmo oggi. Era un amore liberante da quelle catene che opprimevano la Comunità di Brancaccio sia attraverso la violenza e l’arroganza del potere mafioso, sia tramite quel mellifluo modo di concepire e sostenere finanziariamente i riti religiosi, soprattutto per la festa di San Gaetano. Padre Puglisi rifiutò soldi e aiuti dai boss, addirittura quelli della potente e stragista famiglia mafiosa dei Graviano.

Iniziò un’attività di promozione sociale sistematica sui servizi da richiedere al Comune e prese posizioni durissime contro la mafia che nel frattempo consumava stragi e strangolava diritti e dignità, soprattutto nei quartieri popolari.

Padre Pino Puglisi aveva spalle piccole fisicamente ma irrobustite dall’esperienza drammatica maturata per diversi anni, dal 1970 al 1978, a Godrano, un Comune del Corleonese, un paesino laborioso appollaiato proprio all’ingresso del meraviglioso Bosco della Ficuzza, dove insiste uno straordinario ecosistema nel quale è incastonata la famosa Casina reale. Era stato Parroco durante una sanguinosa guerra di mafia che provocò diverse vittime tra quelli che avversavano e quelli che sostenevano l’ascesa al trono di cosa nostra dei Corleonesi, come Liggio, Riina, Provenzano e Bagarella.

Nonostante le difficoltà di quel contesto sociale, era riuscito a far crescere una sana generazione libera culturalmente dal pensare e agire mafioso. Uno di quei ragazzi di Godrano diventerà un sacerdote eccellente e addirittura un valido vescovo.

Don Pino si cimentò inoltre nel dialogo ecumenico, tanto da far dialogare la Comunità Cattolica con quella Evangelica, altrettanto numerosa e molto amata, autorevole e ben radicata nel più vasto territorio e capace di esprimere classe dirigente.

Il suo approccio educativo era disarmante come il suo sorriso. Funzionava, eccome! Anche a Brancaccio era riuscito ad attrarre in Parrocchia diversi ragazzi, facendo loro vivere la cultura della cittadinanza, la prossimità sociale intrisa di valori costituzionali, una fede non condizionata da pregiudizi e chiusure mentali. Aveva promosso il Centro “Padre Nostro”, aperto al quartiere e in sintonia con la “scelta degli ultimi” e della “promozione umana” voluta dalla Chiesa del Concilio, che sentiva sua in tutto e per tutto.

La sua esperienza si era forgiata pure in anni e anni di lavoro come professore di scuola, con diversi incarichi parrocchiali in borgate e quartieri periferici di Palermo, in Seminario, nel Centro Vocazionale, con l’Azione Cattolica e con i giovani universitari della Fuci. Questo lungo percorso aveva fatto nascere in lui quel piglio educativo al tempo stesso molto moderno e ben strutturato nell’approccio di fede. Ecco perché la sua fede e la sua pastorale educativa erano in netto contrasto con i condizionamenti di quel pensare e agire imposti dalla mafia.

Non è un caso che due giovani del quartiere di Brancaccio abbiano messo in gioco la propria vita per testimoniare al Processo contro i feroci boss di Brancaccio che avevano assassinato Padre Puglisi. Uno di essi, Giuseppe, è oggi un Testimone di Giustizia che agisce con rigore e preparazione legislativa al sostegno di tutti gli altri Testimoni umiliati e offesi da un approccio burocratico delle Istituzioni rispetto alla difficilissima ma esemplare condizione di chi cambia radicalmente vita, mette a rischio tutto, abbandona il proprio lavoro e territorio, è costretto spesso a modificare le proprie generalità, perdendo i legami con le famiglie di origine, pur di fare il proprio dovere di cittadini nei pericolosi processi di mafia.

La mafia non tollerava un sacerdote che non si limitava a puntare il dito intervenendo mediaticamente, ma preferiva agire costantemente e quotidianamente sul piano della liberazione culturale, sociale e religiosa. I boss avvertivano che in questo modo erano minati alle fondamenta il loro ruolo nel controllo totalizzante del territorio e il loro prestigio nel decidere tutto, compresa la vita dei momenti salienti della Parrocchia.

Il 15 Settembre del 1993, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, alle 20,40, davanti casa sua, nel piazzale Anita Garibaldi, sempre a Brancaccio, un commando di killer mafiosi lo raggiunse. Oltre a Di Grigoli e Spatuzza, il gruppo era composto da Luigi Giacalone e Cosimo Lo Nigro. Spatuzza lo chiamò per nome e gli intimò: “Questa è una rapina”. Padre Puglisi ebbe solo il tempo di voltarsi, sorridere e dire: “Me l’aspettavo”. Di Grigoli gli sparò a bruciapelo alla nuca.

Sono passati trent’anni e tuttora rimangono esemplari e vive le sue idee, il suo amore per il prossimo, il suo metodo educativo, la sua disponibilità sociale, la sua scelta degli ultimi, la sua voglia di cambiamento della vita del quartiere, di Palermo e della Sicilia.

Padre Pino Puglisi è da alcuni anni un Beato. I motivi sono diversi e tutti validi. Rimane inedito e importante, da non trascurare o minimizzare, il motivo della sua santità “in odium fidei” per avere in sostanza promosso una fede liberante, anche dalle mafie.

Ci mancano moltissimo il suo sorriso disarmante, la sua consapevolezza culturale, la sua attività educativa, la sua fede e il suo impegno per la liberazione dalle mafie. Nello stesso tempo dobbiamo avere la certezza interiore, sociale e politica che la sua ispirazione produce cambiamento: basta accoglierla!


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