di Nuccio Anselmo
All’indomani della sentenza. Per capire “cosa ci dice” il verdetto d’appello del maxiprocesso Nebrodi sulla cosiddetta mafia dei pascoli tortoriciana, che si è registrato nel tardo pomeriggio di giovedì all’aula bunker di Messina. Intanto c’è da considerare che questa decisione arriva a quattro anni di distanza dall’operazione, che si registrò nel gennaio del 2020. Considerando che stiamo parlando di una vicenda con cento imputati i tempi della giustizia in questo caso sono più che accettabili. Se pensiamo per esempio a come si perse per strada il maxiprocesso Mare Nostrum, a cavallo tra gli anni 90 e 2000, fortunatamente siamo a livelli ben diversi.
L’altro aspetto preminente. Le 65 condanne d’appello, sia pure con forti decurtazioni di pena dovute in prevalenza alla “mannaia” della prescrizione, ma prescrizione non vuol dire che i reati non siano stati commessi, ci dice solo che sono “scaduti”, ci dicono che il fenomeno individuato e combattuto dall’allora presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, ovvero il drenaggio di milioni di euro dei contributi comunitari in agricoltura da parte della mafia tortoriciana e dei suoi “vicini di casa” nel totale silenzio di tutti, c’è stato eccome.
E il grande merito dell’inchiesta della Procura di Messina, dei carabinieri del Ros e della Guardia di finanza, è quello di avere guardato finalmente, dopo anni di disattenzioni istituzionali, al fenomeno nella sua globalità. Stiamo però parlando di fatti che si sono verificati tra il 2014 e il 2017, ecco la “forbice” della prescrizione, con la più recente “Nebrodi 2” c’è stato un aggiornamento della situazione ma non bisogna mai far calare l’attenzione su una pratica strutturale di accaparramento di fondi pubblici che probabilmente continua ancora oggi, magari con alcune diversificazioni. Cosa nostra, la storia ci insegna, fa sempre molto presto a cambiare strategia operativa. Speriamo comunque che in questi anni gli agricoltori e gli allevatori onesti siano stati un po’ più liberi del passato.
Un terzo aspetto. Anche in appello il concetto di “mafiosità” è stato riconosciuto solo per il gruppo dei Batanesi, se abbiamo fatto bene i conti sono stati condannati 13 loro esponenti, le pene più alte decise. E questo significa che i Batanesi, per anni, oltre al mondo della droga e delle estorsioni si sono dedicati in maniera sistematica alle truffe in agricoltura. Così come hanno fatto le famiglie Bontempo Scavo-Faranda-Crascì, ma qui anche i giudici d’appello, così come quelli del primo grado, non hanno riconosciuto la strutturazione mafiosa ma solo gli elementi dell’associazione a delinquere semplice. Punti di vista ovviamente, ma le truffe, ci dice la sentenza di secondo grado, ci sono state come fenomeno sistematico.
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Gazzetta del Sud, 07 SETTEMBRE 2024
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