Fabio Geraci
Gli affari della mafia passavano anche attraverso le gelaterie. Vere e proprie miniere d’oro che incassavano soldoni contanti tutto l’anno.
In particolare Cosa nostra aveva messo le mani su Brioscià, la catena molto nota in città che era fallita improvvisamente nel 2021. Un marchio conosciuto, ufficialmente gestito da Mario Mancuso, 44 anni, un imprenditore esperto del settore dietro al quale - in base alle indagini condotte dagli uomini del Nucleo di polizia economico-finananziaria della guardia di finanza, guidati dal colonnello Carlo Pappalardo, con il coordinamento del procuratore Maurizio de Lucia - ci sarebbe stata invece la regia di Michele Micalizzi, 75 anni, storico capo della famiglia mafiosa di Partanna Mondello ed esponente di spicco del mandamento di San Lorenzo, nonché genero di Saro Riccobono, che fu tra i più influenti boss palermitani, di cui aveva sposato la figlia, Margherita.
Per Micalizzi, tornato in libertà nel 2015 dopo 20 anni dietro le sbarre e arrestato ancora una volta l’anno scorso, è scattata una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere. Assieme a lui, con lo stesso provvedimento firmato dal Gip Lirio Conti, è finito in manette anche Mancuso, amministratore dal novembre del 2008 al marzo del 2010 della società Magi, proprietaria delle gelaterie con l’insegna di Brioscià e del Bar Badalamenti, di cui sarebbe stato socio occulto proprio l’anziano uomo d’onore.
Gli indagati sono in tutto dieci e oltre ai due arrestati, Mancuso e Micalizzi senior, ce ne sono otto a piede libero: Giuseppe Micalizzi, 43 anni, figlio del capomafia e arrestato con lui lo scorso anno; l’ex moglie di Mancuso, Mariangela Gottuso, di 44 anni, e il fratello di lei, Giovanni Gottuso, di 48; Giuseppa Basile, detta Gisella, di 43 anni, nuova compagna di Mancuso. Ci sono poi Salvatore Blandino, di 26 anni; Maria Assunta Gnoffo, di 45; Giovanni Maggio, di 59; Teresa Sciortino, di 58. Le accuse sono a vario titolo concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione aggravata dal metodo mafioso, trasferimento fraudolento di valori e bancarotta fraudolenta.
Il Gip ha anche disposto il sequestro preventivo di beni per un valore di un milione e mezzo di euro nei confronti di Micalizzi e di Mancuso ma anche contro i due Gottuso, che erano subentrati a Mancuso come rappresentanti legali dell’azienda.
Secondo l’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Annamaria Picozzi e dal sostituto Federica La Chioma, della Direzione distrettuale antimafia, il crac di Brioscià sarebbe stato pilotato. Micalizzi, pur non avendo alcun ruolo nella compagine societaria, avrebbe impartito disposizioni gestionali e direttive: dall'assunzione e gestione del personale fino alla partecipazione nelle nuove iniziative imprenditoriali legate allo sviluppo e diffusione del brand delle gelaterie. Il legame tra il boss e Mancuso sarebbe stato confermato dai diversi interventi del capomafia per risolvere questioni private dell’imprenditore, nella ricerca di fonti di finanziamento e di nuovi locali per l’apertura di ulteriori punti vendita, oltre «a garantirgli la necessaria protezione rispetto a richieste estorsive avanzate da altri esponenti mafiosi», si legge nell’ordinanza.
Ma le casse delle gelaterie sarebbero state continuamente svuotate per assicurare al mandamento di San Lorenzo risorse economiche da destinare anche «al sostentamento dei detenuti e dei loro familiari». Una conduzione che avrebbe inciso notevolmente sulla situazione finanziaria della società poi fallita, dalle cui ceneri sarebbe nata la Mm4480, sigla - osservano gli inquirenti - «in cui non è difficile scorgere un riferimento alle iniziali dei cognomi dei due indagati» principali. Una ditta individuale, la Mm4480, formalmente intestata all’ex dipendente della Magi, Giovanni Maggio, ma di fatto controllata da Mancuso e che aveva dato vita a Sharbat, a sua volta affidata a Giuseppa Basile, detta Gisella, con cui Mancuso aveva intrecciato una relazione ufficiale dal 2021. È la nuova attività commerciale che avrebbe semplicemente sostituito il logo Brioscià con la nuova etichetta. La stessa da cui prende spunto chi ritiene che quel proliferare di aziende fosse funzionale a un disegno mafioso.
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La scarcerazione dopo più di 20 anni a seguito di una condanna per mafia, il ritorno al vertice della cosca di Tommaso Natale nella parentesi da uomo libero: Michele Micalizzi non aveva potuto fare a meno di rimettersi alla guida del clan e per questo motivo l’anno scorso era tornato nuovamente in carcere.
Micalizzi è un nome storico nella geografia di Cosa nostra. Suo suocero era Rosario Riccobono, grosso narcotrafficante legato alla vecchia mafia di Stefano Bontade, durante la guerra di mafia si schierò con i corleonesi. Un tradimento che pur essendo stato fatto in suo favore, indusse Totò Riina a non fidarsi di lui, condannando a morte don Saro e decine di altri appartenenti a numerose famiglie e mandamenti: il 30 novembre del 1982, con la famosa pulitina di piedi, Riccobono e alcuni fedelissimi vennero strangolati alla fine di un pranzo che alcuni pentiti collocano a casa di Bernardo Brusca, a San Giuseppe Jato, altri - evidentemente ingannati dall’elevatissimo numero di persone che furono uccise quel giorno - parlano di un altro luogo in città. Quel giorno vennero uccisi anche il fratello di Micalizzi, Salvatore, suo cognato Salvatore Lauricella e il padre di quest’ultimo, Giuseppe. In poche ore Riina, in pratica, decimò il clan Riccobono: anche Michele Micalizzi doveva morire, ma scampò all’agguato dandosi alla fuga.
Lasciò la città, come molti altri mafiosi, ma in seguito venne arrestato e condannato anche per omicidio. Poi, dopo più di vent’anni in cella, era uscito dal carcere: all’inizio si era stabilito a Firenze, da dove aveva ricominciato a fare affari.
Nel 2017, l’anno della morte di Riina, sembrava essere finito il divieto di residenza per gli «scappati» imposto dal capo dei capi e si era ripresentato al comando del mandamento di Partanna Mondello: per questo motivo era stato arrestato di nuovo nel luglio scorso. Adesso gli investigatori hanno messo nero su bianco come fosse riuscito a mettere le mani su un settore insospettabile, quello dei gelati. Micalizzi aveva già sponsorizzato la Magi nella vendita del Gelato 2 di via Alcide De Gasperi. La trattativa era stata avviata con Salvatore Genova, il capo del mandamento di Resuttana competente per territorio, il quale aveva autorizzato un commercialista, poi finito in manette, a discutere sulla cessione dell'esercizio commerciale.
Il prezzo stabilito era stato di «sette e mezzo», cioè 75 mila euro, ma «cinque devono restare ‘nta baciledda», diceva il professionista riferendosi alla bacinella virtuale dove confluivano gli incassi del pizzo, per la cosiddetta «messa a posto», almeno così avevano raccontato le trascrizioni delle intercettazioni effettuate in quei giorni dagli agenti della squadra mobile. Alla fine, però, saltò tutto, sia a causa de i rapporti non proprio idilliaci tra Micalizzi e Genova, ma soprattutto perché, nel frattempo, venne dichiarato il fallimento della Magi.
Fa. G.
GdS, 13 agosto 2024
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