di Daniele Billitteri
Quando era picciriddu, ogni anno me nanno mi portava al Festino. Per me era come se oggi mi dicissiru: amunì all’Australia perché era come un viaggio avventuroso come nella foresta di Tarzan solo ca gli alberi erano i cristiani: mila e mila, sudati, feto di gente affollata, fumo di cubarda, scruscio di babbaluci sucati e pestati.
Noi stavamo a Porta di Termini che è alla fine di Corso dei Mille, all’incrocio con la via Lincoln. Così ogni 14 di luglio io andavo da casa mia in via Rocco Pirri al numero 91 di corso dei Mille dove per giunta ero nato (quando si nasceva a casa con la levatrice) e dove abitava il nonno Peppino con la nonna Mimì e mio zio Stefano, ultimo fratello di mia madre. Quando arrivavo io, mio nonno era seduto a tavola coi calzoni, le scarpe e la canottiera. A tavola mia nonna aveva messo quasi sempre una bella insalata di patate bollite, fagiolina, pomodoro e cipolla informata. E una bella bottiglia presa dalla ghiacciaia dove faceva l’acqua frizzante con le polveri Idriz che erano due bustine una azzurra e una rosa che si dovevano mischiare e a me mi pareva una cosa di grandi scinziati.
Io arrivavo digiuno perché il prio era di andare a mangiare al Foro Italico il meglio delle fitinzie di in mezzo alla strada.
Scendevamo dalla via Lincoln io e mio nonno e arrivavamo alla Villa Giulia e cominciavamo a risalire la corrente del Foro Italico da Padre Messina a Porta Felice.
Era tutta una luce che mi riempiva gli occhi e la testa. I profumi si mischiavano come quando si mette il caffè nella tazza del latte nel senso che si arriva a un punto che poi non si distinguono più. C’erano le bancarelle con lo scaccio, il gelato di campagna, i bomboloni, la nciminata. C’era quello col mulune ghiacciato messo nelle piscine col ghiaccio. Ma c’erano pure quelli che vendevano strocchiole, giocattolini e cose per la casa. Non era ancora il tempo delle cassette di musica quindi c’era solo il rumore delle persone o delle quarare rotanti dove si facevano i confetti.
Si aspettava l’arrivo della Processione. Io la storia della Santuzza la sapevo che ci potevo scrivere tre libri perché mio nonno me la raccontava sempre: Rosalia, il principe Baldovino, l’eremitaggio, la peste del 1624, il turco Calavà, il saponaro della Panneria, il cardinale Doria e tutta la compagnia. Ma per me tutto questo era l’introduzione perché io aspettavo una cosa sola: il gioco di fuoco.
Forse ve lo siete scordati, ma per un bambino il gioco di fuoco ha un incanto tutto particolare. Mentre il cielo si illumina, un bambino la finisce di essere terrestre e diventa abitante del cielo alto, quello più sopra di dove volano gli uccelli e dove allora non era arrivato nemmeno lo Sputinicchi. Era lì che ci sentivamo in mezzo alle luci che scoppiavano e disegnavano cose bellissime.
A quei tempi il gioco di fuoco era in realtà un concorso al quale partecipavano di solito tre ditte diverse. Poi c’era una giuria che decideva chi doveva vincere. Ma questo io non lo sapevo perché mio nonno mi aveva imbrogliato.
Tutto cominciò quella volta che io ci domandai: “Nonno ma com’è che si addumano queste cose nel cielo? Che cosa sono?”
Lui mi guardò mentre si asciugava il sudore sotto la camicia con una fazzoletto che mi pareva come un lenziono. A una piazza, però. “Picciriddu mio, devi sapere che in un posto lontano lontano, vicino a dove c’è un vulcano altissimo, c’è un paesino piccolo come un mulune dove abitano cristiani che, presi tutto insieme li potrei tenere nelle mani come quando prendo l’acqua dal vacile per lavarmi. Questi cristianeddi sanno tutti i segreti del vulcano e hanno sperimentato una maniera per conservare tutto il fuoco che esce dalla montagna. Dice che lo fanno diventare come tante palline atiipo le pinnole che mi prendo ogni giorno per la diabete, hai presente? Ora, a tempo di festino loro salgono sulla montagna, prendono tante di queste pinnole e salgono sopra gli aquiloni, che loro sono maestri pure di quelli. Quando arriva un poco di scirocco loro riescono ad arrivare qua sopra dove invece arriva il Maestrale. Scirocco e Maestrale sono come due pugilisti che si taliano prima di darsi pugni. Ma i cristianeddi ne approfittano per restare fermi in aria senza cadere. Quando vedono che la Santuzza ha passato Porta Felice, tirano fuori le pinnole e le cominciano a tirare. E ogni pinnola adduma una stella e la fa brillare come vogliono loro, dipende dalla pinnola che usano. E ne combinano di tutti i colori, e fanno rosoni, fontane, cascate. E poi, quando pensano che ci abbastò, si svuotano le sacchette di tutte le pinnole è c’è il finale che tutti chiamano masculiata per dire che tutta questa confusione la fanno solo i masculi perché le femmine sarebbero più educate e avversate”.
Io era nicu, ma non è che dovevo restare sempre nico, è giusto? Ma intanto imparai che differenza c’era tra stelle e pianeti visto che le pinnole dei cristianeddi noin addumavano a noi ma solo le stelle. Ma, dopo qualche anno che lui mi racconto dei cristianeddi del vulcano, io ci risposi: “Nonno, ma che dici?”. Allora lui capì che stavo diventando grande e rispose: “Minchiate. Ma belle”. Vero è.
L’Ora, edizione straordinaria, 10 luglio 2024
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