mercoledì, luglio 31, 2024

L’INTERVISTA. Paolo Crepet: “Non cambierà nulla? Se lo pensi sei morto”


di Irene Carmina 

Giovani fragili e spaesati, genitori-pusher che narcotizzano i figli riempiendoli di soldi che non verranno mai spesi in libreria. Che a 5 anni piazzano i bambini davanti a uno schermo condannandoli alla solitudine digitale, a 11 gli mescolano ancora il caffelatte con lo zucchero, a 13 li mandano in giro a fare serata e si meravigliano se fanno sesso per la prima volta. Passa il tempo e diventano a loro volta genitori, insegnanti, politici. Insicuri. 

«Di cosa ci stupiamo? Abbiamo creato una sceneggiatura terrificante e, quando siamo davanti all’evidenza, osserviamo questo spettacolo raccapricciante come se fossimo al cinema». Paolo Crepet, 72 anni, vuole buttare giù le maschere, quelle che tutti noi – chi più, chi meno – abbiamo addosso. Fuori la verità, meglio se scomoda. Forse è per questo che lo psichiatra-sociologo, habitué dei salotti televisivi, piace ai giovani che affollano i teatri durante i suoi spettacoli-conferenze. Quello di domani al teatro di Verdura, alle 21, dal titolo “Mordere il cielo”, come il suo ultimo libro, è già quasi sold-out. 
Seguitissimo sui social, fa il pienone di giovani a teatro come Checco Zalone. Non la sorprende? 


«La cosa è strana. Non sono un comico, un attore o un musicista. 
Sono solo uno che usa la parola». 
Un sofista, un filosofo? 
«Un ribelle, un eretico. E i giovani hanno bisogno di eretici. Caravaggio non era amato, era discusso e discutibile. Vede, rompere è meraviglioso. Non essere allineati è rivoluzionario». 
Chi sono i ribelli oggi? 
«Quelli che studiano e non vogliono farsi aiutare dall’intelligenza artificiale. Esprimono opinioni e per questo divengono divisivi. Ora anche i giovani leader politici non lo fanno perché cercano il consenso. Anche Kamala Harris rischia grosso se in campagna elettorale parlerà della guerra in Palestina». 
Era un bambino ribelle? 
«Poveretta mia madre. Pestifero. Alle medie cantavo in classe le canzoni che ascoltavo durante la notte su radio Luxembourg. Ho sempre frequentato i ribelli, come il mio maestro Franco Basaglia. Ma ora siamo circondati dall’indifferenza: la differenza è faticosa». 
La rassegnazione, invece? Una frase che ripetono spesso i siciliani è “tanto non cambia niente”. 
«Se lo si pensa si è morti. I siciliani devono tenere a mente una parola cara a Falcone: la dignità. E poi voi avete sempre avuto una visione delle cose, quasi surreale. Penso a Pirandello, Sciascia, Tornatore: uomini coraggiosi che hanno preso dei rischi e hanno usato l’ironia per distruggere un’idea di potere consacrato dalla malavita o dalla politica corrotta». 
Si è fatto un gran discutere delle parole rivolte in carcere a Filippo Turetta, che ha ucciso la fidanzata Giulia Cecchettin, dal padre: “Non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza”. Che idea s’è fatto? 
«Rispetto il dolore di quel momento. Detto questo, i padri hanno una responsabilità. Abbiamo cresciuto un assassino in casa e non ce ne siamo accorti? Scusi, ma non si può dire. Un assassino non nasce dal lunedì al mercoledì. Cos’è? T’è caduta la tegola in testa? C’è una congiunzione astrale particolare?» 
Intende dire che si poteva intervenire? 
«Dal mio punto di vista trovo molto interessante sapere che Filippo Turetta e Giulia Cecchettin da due anni si mandavano 800 messaggi al giorno e nessuno se n’è accorto. A miei tempi si sarebbe inquietato anche il portiere del palazzo. Che cavolo stai facendo? In quale baratro sei caduto? E soprattutto com’è che nessuno si è accorto di niente? 
Amici, familiari. Non è un weekend andato male, è un’infinità di tempo in cui evidentemente vigeva ciò che abbiamo deciso di far vivere. Ormai ognuno vive per sé». 
Non siamo più capaci di empatia? 
«Dov’è l’empatia? C’è solo la morte delle emozioni. C’è anche un’altra cosa: la fragilità di chi non sa perdere. Non accetti che la tua ragazza ti abbia lasciato allora commetti un femminicidio, non sai accettare un voto basso allora dai un pugno al professore. Mia nonna mi diceva sempre “badati”. La ragazza t’ha lasciato? Piangi da solo. 
La fine di una relazione non può diventare un motivo di lutto per tutta la famiglia». 
Così fragili che per sentirci forti ci nascondiamo dietro a un branco? 
«Lo stupro di Palermo è la prova di questa vigliaccheria. Tuttavia, non possiamo meravigliarci se le cose vanno così. Il problema è tutto quello che la ragazza o i ragazzi facevano cinque anni prima. Perché abbiamo permesso a un ragazzo o a una ragazza di fare seratona a 13 anni? Ma cosa ti aspetti? Li facciamo uscire presto di casa per andare al baretto a sballarsi». 
La diagnosi è chiara, ma la cura? 
«Ridare le matite e la colla ai bambini, dare tempo e regole, riscoprire la noia. Rendere la scuola attrattiva, divertente ma anche esigente, e finirla con queste pagliacciate come abolire i voti. I voti servono: responsabilizzano, come gli esami. E togliere la tecnologia. Se dà una penna da iPad a un bambino, magari disegnerà delle righe un po’ storte che però verranno rettificate dal software. Viene fuori una puttanata, è terribile. Il bambino sarà cresciuto alla sua perfezione. Schiere di bambini tutti uguali, tutti dritti, senza differenze. Ma sa che bello non essere normali?» 

La Repubblica Palermo, 31 luglio 2024

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