Mattarella insieme a Zuppi - Ansa |
SERGIO MATTARELLA
Dalla definizione di democrazia allo stato (precario) della sua salute in Italia e nel mondo fino ai rischi dell'astensionismo e della demagogia: pubblichiamo le parole del capo dello Stato
Democrazia. Parola di uso comune, anche nella sua declinazione come aggettivo. È ampiamente diffusa. Suggerisce un valore. Le dittature del Novecento l’hanno identificata come un nemico da battere. Gli uomini liberi ne hanno fatto una bandiera. Insieme una conquista e una speranza che, a volte, si cerca, in modo spregiudicato, di mortificare ponendone il nome a sostegno di tesi di parte. Non vi è dibattito in cui non venga invocata a conforto della propria posizione. Un tessuto che gli avversari della democrazia pretenderebbero logoro. La interpretazione che si dà di questo ordito essenziale della nostra vita appare talora strumentale, non assunto in misura sufficiente come base di reciproco rispetto.
Si è persino giunti ad affermare che siano opponibili tra loro valori come libertà e democrazia, con quest’ultima artatamente utilizzabile come limitazione della prima. Non è fuor di luogo, allora, chiedersi se vi sia, e quale, un’anima della democrazia. O questa si traduce soltanto in un metodo? Cosa la ispira?Cosa ne fa l’ossatura che sorregge il corpo delle nostre istituzioni e la vita civile della nostra comunità? È un interrogativo che ha accompagnato e accompagna il progresso dell’Italia, dell’Europa. Alexis de Tocqueville affermava che una democrazia senz’anima è destinata a implodere, non per gli aspetti formali naturalmente, bensì per i contenuti valoriali venuti meno. Intervenendo a Torino, alla prima edizione della Biennale della democrazia, nel 2009, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, rivolgeva lo sguardo alla costruzione della nostra democrazia repubblicana, con la acquisizione dei principi che hanno inserito il nostro Paese, da allora, nel solco del pensiero liberal-democratico occidentale.
Dopo la “costrizione” ossessiva del regime fascista soffiava “l’alito della libertà”, con la Costituzione a intelaiatura e garanzia dei diritti dei cittadini. L'alito della libertà anzitutto come rifiuto di ogni obbligo di conformismo sociale e politico, come diritto all’opposizione. La democrazia, in altri termini, non si esaurisce nelle sue norme di funzionamento, ferma restando l’imprescindibilità della definizione e del rispetto delle “regole del gioco”. Perché - come ricordava Norberto Bobbio - le condizioni minime della democrazia sono esigenti: generalità e uguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine e non da ultimo, limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze e impedire che possano diventare, a loro volta, maggioranze. È la pratica della democrazia che la rende viva, concreta, trasparente, capace di coinvolgere.
Quali le ragioni del riferimento all’alito della libertà parlando di democrazia? Non è democrazia senza la tutela dei diritti fondamentali di libertà, che rappresentano quel che dà senso allo Stato di diritto e alla democrazia stessa. L’impegnativo tema che avete posto al centro della riflessione di questa Settimana sociale interpella, con forza, tutti. La democrazia, infatti, si invera ogni giorno nella vita delle persone e nel mutuo rispetto delle relazioni sociali, in condizioni storiche mutevoli, senza che questo possa indurre ad atteggiamenti remissivi circa la sua qualità.
L'astensionismo e il rischio di una “democrazia della maggioranza”
Si può pensare di contentarsi che una democrazia sia imperfetta? Di contentarsi di una democrazia a “bassa intensità”? Si può pensare di arrendersi, “pragmaticamente”, al crescere di un assenteismo dei cittadini dai temi della “cosa pubblica”? Può esistere una democrazia senza il consistente esercizio del ruolo degli elettori? Per porre mente alla defezione/diserzione/rinuncia intervenuta da parte dei cittadini in recenti tornate elettorali.
Occorre attenzione per evitare di commettere l’errore di confondere il parteggiare con il partecipare. Occorre, piuttosto, adoperarsi concretamente affinché ogni cittadino sia nelle condizioni di poter, appieno, prendere parte alla vita della Repubblica. I diritti si inverano attraverso l’esercizio democratico. Se questo si attenua, si riduce la garanzia della loro effettiva vigenza. Democrazie imperfette vulnerano le libertà: ove si manifesta una partecipazione elettorale modesta. Oppure ove il principio “un uomo-un voto” venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori. Ancor più le libertà risulterebbero vulnerate ipotizzando democrazie affievolite, depotenziate da tratti illiberali.
Ci soccorre anche qui Bobbio quando ammonisce che non si può ricorrere a semplificazioni di sistema o a restrizioni di diritti “in nome del dovere di governare”. Una democrazia “della maggioranza” sarebbe, per definizione, una insanabile contraddizione, per la confusione tra strumenti di governo e tutela della effettiva condizione di diritti e di libertà.
Al cuore della democrazia ci sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni, della loro umanità: questo è il cardine della nostra Costituzione. Questa chiave di volta della democrazia opera e sostiene la crescita di un Paese, compreso il funzionamento delle sue istituzioni, se al di là delle idee e degli interessi molteplici c’è la percezione di un modo di stare insieme e di un bene comune. Se non si cede all’ossessiva proclamazione di quel che contrappone, della rivalsa, della delegittimazione. Se l’universalità dei diritti non viene menomata da condizioni di squilibrio sociale, se la solidarietà resta il tessuto connettivo di una economia sostenibile, se la partecipazione è viva, diffusa, consapevole del proprio valore e della propria essenzialità.
Nel cambiamento d’epoca che ci è dato di vivere avvertiamo tutta la difficoltà, e a volte persino un certo affanno, nel funzionamento delle democrazie. Oggi constatiamo criticità inedite, che si aggiungono a problemi più antichi. La democrazia non è mai conquistata per sempre. Anzi, il succedersi delle diverse condizioni storiche e delle loro mutevoli caratteristiche, ne richiede un attento, costante inveramento. Nella complessità delle società contemporanee, a criticità conosciute, che mettono a rischio la vita degli Stati e delle comunità, si aggiungono nuovi rischi epocali: quelli ambientali e climatici, sanitari, finanziari, oltre alle sfide indotte dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale. Le nostre appaiono sempre più società del rischio, a fronteggiare il quale si disegnano, talora, soluzioni tecnocratiche. È tutt’altro che improprio, allora, interrogarsi sul futuro della democrazia e sui compiti che le sono affidati, proprio perché essa non è semplicemente un metodo, bensì costituisce lo “spazio pubblico” in cui si esprimono le voci protagoniste dei cittadini.
Nel corso del tempo, più volte è stata, malauguratamente, posta la domanda “a cosa serve la democrazia ?”. La risposta è semplice: a riconoscere – perché preesistono, come indica l’art. 2 della nostra Costituzione - e a rendere effettive le libertà delle persone e delle comunità. Karl Popper ha indicato come le forme di vita democratica realizzano, essenzialmente, quella “società aperta” che può massimizzare le opportunità di costituzione di identità sociali destinate a trasferirsi, poi, sul terreno politico e istituzionale. La stessa esperienza italiana negli ultimi trent’anni ne è un esempio. Nei settantotto anni dalla scelta referendaria del 1946, libertà di impronta liberale e libertà democratica hanno contribuito, al “cantiere aperto” della nostra democrazia repubblicana, con la diversità delle alternative, le realtà di vita e le differenti mobilitazioni che ne sono derivate.
La libertà di tradizione liberale ci richiama a un’area intangibile di diritti fondamentali delle persone, e sulla indisponibilità di questi rispetto al contingente succedersi di maggioranze e, ancor più, a effimeri esercizi di aggregazione degli interessi. La libertà espressa nelle vicende novecentesche, con l’irruzione della questione sociale, ha messo poi a fuoco la dinamica delle aspettative e dei bisogni delle identità collettive nella società in permanente trasformazione.
È questione nota al movimento cattolico, se è vero che quel giovane e brillante membro dell’Assemblea Costituente, che fu Giuseppe Dossetti, pose il problema del “vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo quello politico, ma anche a quello economico e sociale”, con la definizione di “democrazia sostanziale”. A segnare così il passaggio ai contenuti che sarebbero stati poi consacrati negli articoli della prima parte della nostra Carta costituzionale. Fra essi i diritti economico-sociali. Una riflessione impegnativa con l’ambizione di mirare al “bene comune” che non è il “bene pubblico” dell’interesse della maggioranza, ma il bene di tutti e di ciascuno al tempo stesso, secondo quanto già la Settimana Sociale del 1945 volle indicare.
Il percorso dei cattolici
Il percorso dei cattolici - con il loro contributo alla causa della democrazia- non è stato occasionale né data di recente, eppure va riconosciuto che l’adesione dottrinale alla democrazia fu meno remota perché condizionata dalla “questione romana” con l’accidentato percorso della sua soluzione. Ma già l’ottava Settimana sociale, a Milano, nel 1913, non avvertiva remore nell’affermare la fedeltà dei cattolici allo Stato e alla Patria - quest’ultima posta più in alto dello Stato - sollecitando, contemporaneamente, il diritto di respingere ogni tentativo di “trasformare la Patria, lo Stato, la sua sovranità, in altrettante istituzioni ostili…mentre sentiamo di non essere a nessuno secondi nell’adempimento di quei doveri che all’una e all’altro ci legano”. Una espressione di matura responsabilità. Il tema che veniva posto, era fondamentalmente un tema di libertà - anche religiosa - e questo riguardava tutta la società, non esclusivamente i rapporti bilaterali tra Regno d’Italia e Santa Sede.
Ho poc’anzi ricordato la 19^ edizione delle Settimane, a Firenze, nell’ottobre 1945. In quell’occasione, nelle espressioni di un eminente giurista – poi costituente - Egidio Tosato, troviamo proposto il tema dell’equilibrio tra i valori di libertà e di democrazia, con la individuazione di garanzie costituzionali a salvaguardia dei cittadini. La democrazia come forma di governo non basta a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà: essa può essere distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o utilità comuni. Il Novecento ce lo ricorda e ammonisce. Anche da questo si è fatta strada l’idea di una suprema Corte Costituzionale. Tosato contestò l’assunto di Rousseau, in base al quale la volontà generale non poteva trovare limiti di alcun genere nelle leggi, perché la volontà popolare poteva cambiare qualunque norma o regola. Lo fece con parole molto nette: “Noi sappiamo tutti ormai che la presunta volontà generale non è in realtà che la volontà di una maggioranza e che la volontà di una maggioranza, che si considera come rappresentativa della volontà di tutto il popolo può essere, come spesso si è dimostrata, più ingiusta e più oppressiva che non la volontà di un principe”. Un fermo no, quindi, all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice.
La coscienza dei limiti è un fattore imprescindibile di leale e irrinunziabile vitalità democratica. Guido Gonella, personalità di primo piano del movimento cattolico italiano e poi statista insigne nella stagione repubblicana, relatore anch’egli alla Settimana di Firenze nel 1945, non ebbe esitazioni nel rinvenire nelle Costituzioni, una “forma di vita più alta e universale”, con la presenza di elementi costanti “categorie etiche”, e di elementi variabili, secondo le “esigenze storiche”, ponendo in guardia sui rischi posti da una eccessiva rigidezza conservatrice o da una troppo facile flessibilità demagogica che avrebbe potuto caratterizzarle, con il risultato di poter passare con indifferenza dall’assolutismo alla demagogia, per ricadere all’indietro verso la dittatura. Su questo si basa la distinzione tra prima e seconda parte della nostra Costituzione. Il messaggio fu limpido: sbagliato e rischioso cedere a sensibilità contingenti, sulla spinta delle tentazioni quotidiane della contesa politica. Come rischia di avvenire con la frequente tentazione di inserire richiami a temi particolari nella prima parte della Costituzione, ignorando che questa, per effetto della saggezza dei suoi estensori, li ricomprende comunque in base ai suoi principi e valori di fondo.
La Costituzione seppe dare un senso e uno spessore nuovo all’unità del Paese e, per i cattolici, l'adesione ad essa ha coinciso con un impegno a rafforzare, e mai indebolire, l'unità e la coesione degli italiani. Spirito prezioso, come ha ricordato di recente il Cardinale Zuppi, perché la condivisione intorno a valori supremi di libertà e democrazia è il collante, irrinunciabile, della nostra comunità nazionale. Pio XII, nel messaggio natalizio del 1944, era stato ricco di indicazioni importanti e feconde. Permettetemi di soffermarmi su quel testo per richiamarne l’indicazione che, al legame tra libertà e democrazia, unisce il tema della democrazia a quello della pace. Perché la guerra soffoca, può soffocare, la democrazia. L’ordine democratico, ricordava il Papa, include la unità del genere umano e della famiglia dei popoli. “Da questo principio deriva l’avvenire della pace”. Con l’invocazione “guerra alla guerra” e l’appello a “bandire una volta per sempre la guerra di aggressione come soluzione legittima delle controversie internazionali e come strumento di aspirazioni nazionali”. Non si trattava di un dovuto “irenismo”, di scontato ossequio pacifista della Chiesa di fronte alla tragedia della Seconda guerra mondiale. Era, piuttosto, anzitutto, una ferma reazione morale che interpreta la coscienza civile presente certamente nei credenti – e, comunque, nella coscienza dei popoli europei - destinata a incrociarsi con le sensibilità di altre posizioni ideali. Prova ne è stata la generazione delle Costituzioni del Secondo dopoguerra, in Italia come in Germania, in Austria, in Francia.
Per l’Italia gli art. 10 e 11 della nostra Carta, volti a definire la comunità internazionale per perseguire la pace. Sarebbe stato il professor Pergolesi, sempre a Firenze 1945, ad affermare il diritto del cittadino alla pace interna ed esterna con la proposta di inserimento di questo principio nelle Costituzioni, dando così vita a una nuova concezione dei rapporti tra gli Stati. Se in passato la democrazia si è inverata negli Stati – spesso contrapposti e comunque con rigidi, insormontabili frontiere - oggi, proprio nel continente che ne è stato la culla, si avverte la necessità di costruire una solida sovranità europea che integri e conferisca sostanza concreta e non illusoria a quella degli Stati membri. Che consenta e rafforzi la sovranità del popolo disegnata dalle nostre Costituzioni ed espressa, a livello delle istituzioni comunitarie, nel Parlamento Europeo.
Il percorso democratico, avviato in Europa dopo la sconfitta del nazismo e del fascismo, ha permesso di rafforzare le istituzioni dei Paesi membri e ampliare la protezione dei diritti dei cittadini, dando vita a quella architrave di pace che è stata prima la Comunità europea e ora è l’Unione. Una più efficace unità europea - più forte ed efficiente di quanto fin qui non siamo stati capaci di realizzare – è oggi condizione di salvaguardia e di progresso dei nostri ordinamenti di libertà, di uguaglianza, di solidarietà, di pace.
La necessità di Europa
Tornando alla riflessione sui cardini della democrazia, va sottolineato che la democrazia comporta il principio dell’eguaglianza perché riconosce che le persone hanno eguale dignità. La democrazia è strumento di affermazione degli ideali di libertà. La democrazia è antidoto alla guerra. Quando ci chiediamo se la democrazia possiede un’anima, quando ci chiediamo a cosa serva la democrazia, troviamo agevolmente risposte chiare. Lo sforzo che, anche in questa occasione, vi apprestate a produrre per la comunità nazionale, richiama le parole con cui il Cardinale Poletti, nel 1988, alla XXX assemblea generale Cei accompagnò, dopo vent’anni, la ripresa delle Settimane Sociali: “diaconia della Chiesa italiana al Paese”. Con il vostro contributo avete arricchito, in questi quasi centoventi anni dalla prima edizione, il bene comune della Patria e, di questo, la Repubblica vi è riconoscente.
La nostra democrazia ha messo radici, si è sviluppata, è divenuta un tratto irrinunciabile dell’identità nazionale (mentre diveniva anche identità europea) sostenuta da partiti e movimenti, che avevano raggiunto la democrazia nel corso del loro cammino e su di essa stavano rifondando la loro azione politica nella nuova fase storica. Oggi dobbiamo rivolgere sguardo e attenzione a quanto avviene attorno a noi, in un mondo sempre più raccolto e interconnesso. Accanto al riproporsi di tentazioni neo-colonialistiche e neo-imperialistiche, nuovi mutamenti geopolitici sono sospinti anche dai ritmi di crescita di Stati-continente in precedenza meno sviluppati, da tensioni territoriali, etniche, religiose che, non di rado sfociano in guerre drammatiche, da andamenti demografici e giganteschi flussi migratori.
Attraversiamo fenomeni – questi e altri - che mutano profondamente le condizioni in cui si viveva in precedenza e che è impossibile illudersi che possano tornare. Dalla dimensione nazionale dei problemi - e delle conseguenti sfere decisionali - siamo passati a quella europea e, per qualche aspetto a quella globale. È questa la condizione della quale siamo parte e nella quale dobbiamo far sì che a prevalere sia il futuro dei cittadini e non delle sovrastrutture formatesi nel tempo. All’opposto della cooperazione fra eguali si presenta il ritorno alle sfere di influenza dei più forti o meglio armati - che si sta praticando e teorizzando, in sede internazionale, con la guerra, l’intimidazione, la prevaricazione - e, in altri ambiti, di chi dispone di forza economica che supera la dimensione e le funzioni degli stati. Risalta la visione storica e la sagacia di Alcide De Gasperi con la scelta di libertà del Patto Atlantico compiuta dalla Repubblica nel 1949 e con il suo coraggioso apostolato europeo.
Venti anni fa, a Bologna, la 44 ^ Settimana si poneva il tema dei nuovi scenari e dei nuovi poteri di fronte ai quali la democrazia si trovava. È necessario misurarsi con la storia, porsi di fronte allo stato di salute delle istituzioni nazionali e sovranazionali e dell’organizzazione politica della società. Nuovi steccati sono sempre in agguato a minare la basi della convivenza sociale: le basi della democrazia non sono nè esclusivamente istituzionali nè esclusivamente sociali, interagiscono fra loro. Cosa ci aiuta? Dare risposte che vedono diritti politici e sociali dei popoli concorrere insieme alla definizione di un futuro comune.
Vogliamo riprendere per un attimo la enciclica “Populorum progressio” di Paolo VI: «Essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, salute, una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori di ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini, godere di una maggiore istruzione, in una parola fare conoscere e avere di più per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi, mentre un gran numero di essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio tale legittimo desiderio». Vi è qualcuno che potrebbe rifiutarsi di sottoscrivere queste indicazioni? Temo di sì, in realtà, ma nessuno avrebbe il coraggio di farlo apertamente.
Anche per questo l’esercizio della democrazia, come si è visto, non si riduce a un semplice aspetto procedurale e non si consuma neppure soltanto con la irrinunziabile espressione del proprio suffragio nelle urne nelle occasioni elettorali. Presuppone lo sforzo di elaborare una visione del bene comune in cui sapientemente si intreccino – perché tra loro inscindibili - libertà individuali e aperture sociali, bene della libertà e bene dell’umanità condivisa. Né si tratta di questione limitata ad ambiti statali.
Alfabeti della società, analfabeti della democrazia
Monsignor Adriano Bernareggi, nelle sue conclusioni della Settimana sociale del ’45, argomentò, citando Jacques Maritain, che una nuova cristianità si affacciava in Europa. L’unità da raggiungere nelle comunità civili moderne non aveva più un’unica “base spirituale” bensì un bene comune terreno, che doveva fondarsi proprio sull’intangibile “dignità della persona umana”. Questa la consapevolezza che è stata alla base di una stagione di pace nel continente europeo. Continuava l’allora vescovo di Bergamo, “la democrazia non è soltanto governo di popolo, ma governo per il popolo”.
Affrontare il disagio, il deficit democratico che si rischia, deve partire da qui. Dal fatto che, in termini ovviamente diversi, ogni volta si riparte dalla capacità di inverare il principio di eguaglianza, da cui trova origine una partecipazione consapevole. Perché ciascuno sappia di essere protagonista nella storia. Don Lorenzo Milani esortava a “dare la parola”, perché “solo la lingua fa eguali”. A essere alfabeti nella società.
La Repubblica ha saputo percorrere molta strada, ma il compito di far sì che tutti prendano parte alla vita della sua società e delle sue istituzioni non si esaurisce mai. Ogni generazione, ogni epoca, è attesa alla prova della “alfabetizzazione”, dell’inveramento della vita della democrazia. Prova, oggi, più complessa che mai, nella società tecnologica contemporanea. Ebbene, battersi affinché non vi possano essere “analfabeti di democrazia” è una causa primaria, nobile, che ci riguarda tutti. Non soltanto chi riveste responsabilità o eserciti potere. Per definizione, democrazia è esercizio dal basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme.
Vi auguro, mi auguro, che si sia numerosi a ritrovarsi in questo cammino.
mercoledì 3 luglio 2024
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