sabato, luglio 27, 2024

LA STORIA. Li Sacchi, vittima invisibile. Ucciso insieme a Chinnici, ma gli negano la medaglia


Il 29 luglio 1983 il portiere di via Pipitone Federico morì nella strage che costò la vita al giudice e alla scorta
 

di Tullio Filippone

Se non avesse percorso al fianco del giudice, come ogni mattina, quei pochi metri tra il palazzo e l’auto parcheggiata, non sarebbe stato strappato alla famiglia dalla prima bomba mafiosa della “Palermo come Beirut”. Ma Stefano Li Sacchi, il portiere dello stabile di via Pipitone Federico, che con Rocco Chinnici aveva un rapporto cordiale e di grande stima, non chiudeva mai la portineria se il magistrato, inventore e capo del pool antimafia, non era tornato a casa.

E così, quel 29 luglio del 1983, alle 8.05, la dedizione al suo lavoro, l’ammirazione e la profonda stima per quel giudice che, come lui, veniva dalle campagne del Palermitano, gli costarono la vita. Stefano Li Sacchi è morto nella strage di via Pipitone Federico. Una morte violenta sul posto di lavoro, per cui la famiglia, in testa la nipote Lucia, da anni chiede la medaglia al Valore civile. Un riconoscimento che hanno ottenuto il maresciallo Mario Trapassi, il capo scorta di Chinnici e l’appuntato Salvatore Bartolotta. «Ma non mio zio, che è morto mentre svolgeva con professionalità il proprio lavoro – dice la nipote Lucia, 60 anni – Da 41 anni chiediamo soltanto che gli venga riconosciuta la medaglia al Valore civile. Quella mattina di luglio ha sconvolto per sempre la vita della nostra famiglia. Oggi questo riconoscimento non ci darebbe indietro la persona, che per me era come un padre, ma sarebbe un giusto tributo alla memoria di una vittima di mafia che formalmente rischia di passare alla storia quasi fosse una vittima di serie B». 
Una richiesta reiterata più volte, con tre lettere al Quirinale, quando era presidente Giorgio Napolitano, e una quarta inviata a Sergio Mattarella l’anno scorso, a ridosso della ricorrenza dei quarant’anni della strage. E ancora una serie di interlocuzioni con gli uomini delle istituzioni e la stessa famiglia Chinnici. L’unica risposta ufficiale è arrivata il 9 febbraio del 2017 dalla prefettura di Palermo, che con una comunicazione scritta e molto sintetica ha detto alla famiglia che la commissione al Valore e al merito civile del Ministero dell’Interno non aveva « ravvisato i presupposti per concedere l’onorificenza » . L’unico telegramma politico di condoglianze ai familiari è arrivato invece nei giorni caldi del 1983 e proveniva dal PCI, con la firma del segretario Enrico Berlinguer, forse in memoria del suo impegno in prima linea nelle lotte contadine per la terra negli anni Quaranta. 
Eppure Stefano Li Sacchi, come i tanti servitori dello Stato uccisi dal piombo e il tritolo mafioso, è stato un onesto cittadino morto sul posto di lavoro. Con l’unica “ colpa” di trovarsi nello scenario di guerra della prima autobomba della mafia. «Ogni mattina mio zioaccompagnava il giudice Chinnici alla portiera della macchina. Avevano creato un bel rapporto, forse perché, sebbene fossero diversi, uno era originario di Geraci Siculo e l’altro di Misilmeri – dice la nipote Lucia, che sin da quando aveva 5 anni ha vissuto con lo zio Stefano e la zia Nunziata – Lui stimava così tanto il giudice che non chiudeva la portineria prima che fosse rientrato a casa. E se tardava, pranzava dopo, a costo di mangiare la pasta scotta. Era una persona umile e un gran lavoratore che si faceva volere bene da tutti, nel palazzo e nel quartiere». 
La sua è stata una storia nel solco del destino di tanti siciliani onesti e di umili origini, che si spostavano dalle campagne a una Palermo caotica e in espansione in cerca di una vita migliore. Nato nel1923 a Geraci Siculo, alle pendici delle Madonie, Stefano Li Sacchi era il quarto di cinque figli e da giovanissimo era stato costretto a interrompere gli studi per aiutare la famiglia. Poi, nel 1951, con la moglie Nunziata, si era trasferito nella Palermo del boom edilizio, trovando lavoro come custode, prima in una portineria di via Roma e poi in via Pipitone Federico. « A scuola – dice ancora la nipote – il maestro aveva detto ai genitori che era un ragazzino con grandi capacità, ma mio nonno non aveva i mezzi economici per pagargli gli studi. Per questo mio zio Stefano, per cui ero come una figlia adottiva, ha fatto di tutto per farmi studiare ed era felicissimo quando mi sono iscritta a medicina ». 
Quella mattina del 29 luglio1983, che racconta ancora oggi, dopo 41 anni, con una forte commozione, la nipote si stava preparando proprio per un esame di Istologia. « Abitavamo molto vicino e io ero in bagno pronta per uscire per sostenere l’esame, quando ho sentito un boato terribile – racconta – Non posso dimenticare il rumore dei vetri e delle serrande che cadevano a cascata. Siamo usciti a vedere e avevo già un brutto presentimento. Poi ho visto mio zio con un buco in fronte e un altro nel petto, all’altezza del cuore. Erano le schegge. Da quel giorno per mia zia e per tutti noi la vita è cambiata. Oggi ho mandato un’altra lettera al Quirinale, perché quel riconoscimento al Valore civile lo devo e lo dobbiamo tutti alla sua memoria». 

La Repubblica Palermo, 27/7/2024

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