di Giuseppe Savagnone
La furia della Meloni
E così il governo italiano si trova ad essere, insieme ad Ungheria e Slovacchia, il solo dell’Unione ad opporsi alle proposte maturate nel corso del Consiglio europeo e che dovrebbero essere ratificate dal Parlamento europeo il 18 luglio: Ursula von der Leyen del Partito popolare, confermata alla presidenza della Commissione, il socialista portoghese Antonio Costa presidente del Consiglio, la liberale estone Kaja Kallas “ministro degli Esteri”. La Meloni si è astenuta sulla prima e ha votato contro gli altri due. «Non potevo fare altro», ha detto.
Lo aveva preannunziato, del resto, la furibonda esternazione con cui la nostra premier – riferendo in Parlamento sugli accordi per i vertici dell’UE, prima della loro definitiva conferma – li aveva bollati come un esempio di mancanza di democrazia, definendoli, più tardi, «sbagliate nel metodo e nel merito», segno di «una mancanza di rispetto ai cittadini».
Una rabbia – neppure malcelata – che si riferiva innanzi tutto al metodo. Fin dai tempi in cui era all’opposizione e poi nel programma di governo nelle reiterate dichiarazioni fate all’inizio del suo mandato, la Meloni ha sempre considerato un punto centrale del suo progetto politico ridare all’Italia un prestigio internazionale, soprattutto nei confronti dell’Europa, che secondo lei da troppo tempo aveva perduto.
Una valutazione che per la verità contrastava con l’evidente considerazione di cui godeva il suo predecessore Draghi da parte di tutti i capi di governo delle due sponde dell’Atlantico, ma che corrispondeva alla logica di una leader cresciuta nel clima fortemente nazionalistico dell’estrema destra.
Sta di fatto che, fin dall’entrata in carica di questo governo, la nostra presidente del Consiglio si è lanciata in un vorticoso giro di incontri con altri capi di Stato, insistendo ad ogni occasione per attribuire a questo attivismo il significato di una accresciuta influenza internazionale.
Una lettura che appariva confermata dal maggiore peso a livello europeo, di cui era un segno evidente il sodalizio creatosi tra la Meloni e la presidente del Consiglio dell’UE, la Von der Leyen, i cui nomi negli ultimi mesi si sono trovati spesso associati.
In realtà non era necessario essere dei politologi per rendersi conto che alla base di questa improvvisa sintonia c’era la prospettiva di una sconfitta del Partito popolare, alle scorse elezioni di giugno, che avrebbe costretto la Von der Leyen a contare, per il rinnovo del suo mandato, sui voti del gruppo dei conservatori, guidati dai FdI.
Pur con l’avanzata delle destre, questa sconfitta in realtà non c’è stata e, malgrado l’indebolimento dei socialisti, popolari, socialisti e liberali hanno avuto i voti necessari per tornare a formare la maggiorana di governo, senza dover ricorrere al sostegno dei conservatori della Meloni.
Risultato: malgrado il suo successo elettorale, che ha portato i conservatori a scavalcare i verdi nella gerarchia di forze del parlamento europeo, la nostra premier non è stata neppure coinvolta nelle trattative per le massime cariche dell’UE ed è rimasta fuori della porta ad aspettare, furiosa, le decisioni degli altri.
L’ “amica” Ursula, a questo punto, non ha mosso un dito per toglierla da questo isolamento e ora lei non l’ha neppure votata. Dove non è in gioco l’assegnazione all’Italia, nella ripartizione delle cariche di seconda linea, di un vicepresidente e di un commissario di peso nella Commissione – questo fin dall’inizio era garantito e avverrà – ma il modo in cui ci si sta arrivando. «C’è stata una mancanza di rispetto», ha detto Meloni. Altro che rilancio del prestigio dell’Italia!
Il problema della democrazia
Ma non è questa umiliazione personale il motivo ufficiale dell’opposizione della Meloni bensì il fatto che «le nomine ignorano il voto di cittadini». Al di là dei sogni di gloria infranti, c’è l’oggettiva ingiustizia dell’avere escluso dal confronto sui problemi della gestione dell’intera Unione coloro che avevano avuto meno voti, anche se comunque rappresentanti di una larga parte dei cittadini europei.
A questo evidentemente si riferiscono le accuse di mancanza di “democrazia” rivolte dalla nostra premier ai partiti della maggioranza.
Un’accusa che appare giustificata e che però fa riflettere sullo stile “democratico” che il governo italiano sta adottando nei confronti delle opposizioni nel varo delle due grandi riforme che cambieranno il volto del nostro paese, l’autonomia differenziata e il premierato.
Anche qui i cittadini hanno espresso una larga fiducia anche a partiti dell’opposizione, senza contar il largo margine dell’astensionismo che riduce la rappresentanza del governo, rispetto all’insieme dell’elettorato, ad oscillare tra il 24,7% delle politiche e 22,7% delle europee.
Malgrado questa esile rappresentatività, il governo di destra ha chiaramente dichiarato che andrà avanti senza esitazione anche in presenza della frontale opposizione degli altri partiti. E qui non si tratta di nomine, ma dell’assetto fondamentale della nostra vita associata.
Non sarebbe il caso che la Meloni si interrogasse sul doppio standard da lei adottato nella situazione in cui è le ad essere in minoranza, come in Europa, e a quella che la vede al governo?
Il ritornello «abbiamo avuto più voti di voi e perciò decidiamo noi» non esprime il metodo democratico in nessuno dei due casi. La democrazia non è una pura somma aritmetica di voti, ma uno stile di partecipazione che deve coinvolgere quante più persone è possibile, ascoltandole e valorizzando il loro apporto.
Altrimenti diventa la dittatura della maggioranza, che spacca una comunità in fronti contrapposti e dissolve il bene comune, a cui tutti dovrebbero essere interessati, trovando in esso un punto d’incontro in un’alternativa perversa di obiettivi ideologici di parte, incompatibili tra loro.
Gli amari frutti di questo declino sono sotto i nostri occhi: astensionismo dilagante, fuga dalle responsabilità sociali evidenziata dall’evasione fiscale alle stelle, corruzione.
Non si valorizza la nazione – la Patria, come ama definirla la Meloni – continuando a procedere su questa strada. Come non si valorizza l’Europa rafforzando una ristretta governance sorda alle esigenze dell’opposizione.
Ma la nostra premier non può ribellarsi a questo secondo errore continuando a chiudere gli occhi sul primo. Vale per entrambi quello che giustamente lei ha detto: non né così che costruisce la democrazia.
Tuttavia.eu, 28/6/2024
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