di Giuseppe Savagnone
Il mondo si divide
Non sono stati molti gli osservatori che hanno dato il giusto rilevo a quanto è accaduto al “Convegno per la pace in Ucraina” del 16 e 17 giugno scorso.
Tutti, naturalmente, hanno evidenziato che, a fronte degli 80 paesi e delle 4 organizzazioni internazionali che hanno sottoscritto i 10 punti della proposta di pace del presidente ucraino Zelens’kyj, ce ne sono stati 12 che non hanno voluto farlo: l’India, il Brasile (presente come osservatore), il Messico, la Colombia, il Sudafrica, l’Indonesia, la Thailandia, la Libia, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Armenia, il Vaticano (anch’esso presente come osservatore).
Senza contare i 68 Stati che hanno declinato l’invito a partecipare – in tutto il governo svizzero ne aveva invitati 160 – , esprimendo già con questo rifiuto il loro dissenso. E tra questi c’è la Cina, il cui ruolo in una eventuale trattativa di pace è fondamentale.
E in tutte le cronache e i commenti è stato riconosciuto che non si è trattato di una fronda marginale. Alcuni degli Stati che non hanno firmato sono dei giganti, già anche semplicemente sotto il profilo demografico. Basti pensare che essi, insieme, contano qualcosa come 2 miliardi e 25 milioni di abitanti. Se a questi si aggiunge la Cina, che non ha mandato nessun rappresentante, si arriva a 3 miliardi e 66 milioni di persone, quasi la metà della popolazione mondiale.
Ma si è sottolineato che comunque hanno sottoscritto il documento, fra gli altri, gli Stati Uniti, tutti i membri dell’UE, il Consiglio d’Europa, la Commissione europea, il Parlamento europeo, il Regno Unito, il Canada, la Turchia, l’Argentina, Israele, il Giappone, la Corea del sud. Insomma, i paesi che contano, quelli del G7, più qualche altro che si allinea alle loro posizioni.
Ciò che spesso non è stato messo in luce è la portata epocale di quanto sta accadendo, e di cui la vicenda della guerra in Ucraina è solo una manifestazione, la divisione del pianeta in due aree, che non corrispondono al facile schema secondo cui i paesi democratici – che poi sarebbero quelli del G7, nella loro maggioranza membri della NATO – lotterebbero in difesa della libertà contro quelli totalitari.
Perché alcuni degli Stati che prendono le distanze dalla linea degli Stati Uniti e dei loro alleati nei confronti della Russia sono anch’essi democratici, come l’India e il Brasile. Altri, invece, a cominciare dalla Russia, non lo sono affatto. Che cosa dunque li accomuna?
La contrapposizione tra Nord e Sud
Il fatto è che tutti questi paesi oggi si riconoscono parte del cosiddetto “Sud globale”, un’espressione oggi sempre più usata per designare tutte quelle nazioni che sono state in qualche modo vittime di colonialismo o di sfruttamento e che stanno sperimentando processi di sviluppo ancora incompiuti (ancora in un recente passato si parlava di “paesi in via di sviluppo”).
Proprio la guerra in Ucraina ha evidenziato e potenziato questa contrapposizione, emersa già nell’aprile del 2022, quando, all’indomani dell’invasione russa, l’Assemblea generale dell’ONU ha sospeso la Russia dal Consiglio dei diritti umani.
Biden aveva espresso, in questa occasione, tutta la sua soddisfazione per una decisione che a suo avviso dimostrava «quanto la guerra di Putin abbia fatto della Russia un paria (…). Noi continueremo a lavorare con le nazioni per far rispondere la Russia delle atrocità commesse, e per alzare la pressione sull’economia russa, e isolare la Russia dal palcoscenico internazionale».
Il presidente americano, però, non aveva fatto sufficiente attenzione al fatto che la decisione – pur essendo presa a larga maggioranza – non era stata unanime. 93 paesi si erano pronunciati a favore, mentre 24 si erano opposti e 58 si erano astenuti.
Tra i contrari, molti storici alleati di Mosca, come Cina, Cuba, Bielorussia, Siria e Vietnam e altri che lo sono diventati di recente grazie agli aiuti militari ricevuti dal Cremlino, come Mali, Gabon, Zimbabwe.
C’erano poi gli astenuti, tra cui figuravano più o meno gli stessi che ora non hanno ritenuto di firmare il documento di Zelens’kyj: l’India, il Brasile, il Messico, il Sudafrica, l’Indonesia, la Thailandia, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti .
Particolarmente significativa era stata la presa di posizione della Cina, in cui si esplicitava, piuttosto che un pieno accordo con la Russia sul merito della sua politica, un dissenso nei confronti dello stile enfatizzato dal presidente americano, basato sull’esclusione: «Il dialogo e il negoziato sono l’unica via per uscire dalla crisi in Ucraina», aveva detto l’ambasciatore cinese all’ONU, Zhang Jun, dopo il voto. «Questa risoluzione», aveva aggiunto, «aggrava le divisioni tra gli Stati membri, aggiunge benzina al fuoco, e non aiuta i colloqui di pace».
Una riflessione che probabilmente è alla base anche della scelta del Vaticano di non firmare il documento finale dell’incontro di Lucerna, chiaramente ispirato alla logica della contrapposizione frontale nei confronti della Russia.
Una logica, peraltro, che aveva già determinato, nel marzo del 2014, dopo l’annessione della Crimea da parte di Mosca, l’esclusione della Russia dal G8 – il gruppo dei paesi del mondo con le economie più avanzate – di cui faceva parte nel 1997. E che si sarebbe espressa, dopo l’aggressione di Putin nei confronti dell’Ucraina, in ondate successive di sanzioni sempre più pesanti che, nelle intenzioni degli Stati della NATO, avrebbero dovuto metterne in ginocchio l’economia.
Per non dire dell’esclusione sistematica degli atleti russi da tutte le gare internazionali, dai tornei di calcio alle paralimpiadi di Pechino, e della cancellazione della presenza di artisti e opere d’arte russe da mostre e teatri.
Il BRICS
Le cose non sono andate come Biden e gli altri leader della NATO prevedevano. La Russia non è rimasta isolata sulla scena del «palcoscenico internazionale». E la sua economia non è crollata, anzi – pur avendo dei forti contraccolpi – ha superato, secondo i più recenti dati della Banca Mondiale pubblicati all’inizio di giugno, quella del Giappone, scalzandola dal quarto posto nella graduatoria mondiale.
Tra le spiegazioni di questa inaspettata resilienza c’è quella che già da prima della crisi ucraina la Russia aveva stretto forti legami con quel “Sud del mondo” di cui si è parlato. Di questi legami è a più evidente e significativa espressione la nuova realtà del BRICS.
Noto anche come “Gruppo dei Cinque”, il BRICS è un forum economico internazionale fondato nel 2009 da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ( BRICS è l’acronimo composto dalle loro iniziali) come alleanza tra le economie emergenti. Al nucleo iniziale si sono andati aggiungendo, recentemente, gli Emirati Arabi Uniti, il Sudafrica, l’Iran, l’Egitto e l’Etiopia. E altri, come la Nigeria e la Turchia, stanno orientandosi a parteciparvi.
Si tratta di Stati che hanno storie, culture, istituzioni molto diverse tra loro. E, a differenza della Nato, il BRICS non comporta una alleanza politico-militare fra i membri. Vi è però qualcosa che li accomuna e che spiega la loro vicinanza alla Russia (geograficamente non rientrante nel concetto di “Sud”), ed è la loro spinta ad emergere, in potenziale o esplicita contrapposizione ai paesi ricchi, e in larga misura ex colonialisti, del G7, contestandone il ruolo egemone, finora dato per indiscusso.
Il terreno del conflitto è innanzi tutto quello economico. Si tratta di scalzare il quadro di un’economia neocapitalista che finora ha avuto negli Stati Uniti il suo perno. Va in questa direzione la proposta avanzata nel vertice dell’agosto 2023 dal presidente del Brasile Lula da Silva, di introdurre una moneta comune che possa permettere ai paesi BRICS di non ricorrere al dollaro americano per effettuare gli scambi.
Ciò che di fatto è avvenuto non è ancora l’adozione di una moneta unica, ma il ricorso a quelle dei singoli paesi, in sostituzione del dollaro. In generale l’utilizzo del dollaro nei commerci dei paesi BRICS è in forte diminuzione, appena il 28,7% nel 2023, anno in cui un quinto di tutto il commercio petrolifero mondiale è stato fatto con monete diverse dal dollaro.
Insomma, lo sforzo di emancipazione dall’Occidente è in pieno svolgimento e il BRICS esercita una sempre maggiore attrattiva verso paesi dell’Asia e dell’Africa che covano, in modo più o meno esplicito, un atteggiamento di risentimento nei suoi confronti.
Il nuovo asse spaziale
Lo spazio ha sempre avuto un ruolo simbolico importante nel definire i rapporti tra le diverse realtà sociali, politiche ed economiche del pianeta. A lungo, dopo la seconda guerra mondiale, l’asse spaziale fondamentale è stato quello orizzontale: Est ed Ovest, Oriente Vs Occidente.
Si parlava di “paesi dell’Est, per indicare non solo e non tanto una collocazione geografica, quanto l’appartenenza alla realtà del mondo comunista, e di “paesi dell’Ovest” per designare gli Stati democratici.
Nel tempo della globalizzazione il pianeta sembrava unificato dalla vittoria dell’Occidente democratico e neocapitalista. Le differenze erano relativizzate da un comune orizzonte economico, che era anche un fattore di pace politica.
La crisi ucraina ha aperto la strada a quello che il presidente Biden in un suo discorso ha definito «un nuovo ordine mondiale», accentuando esigenze e prospettive che già maturavano nel periodo precedente.
(Il BRICS nasce nel 2009, ma è evidente che il suo ruolo era molto diverso per una Russia strettamente legata alla Germania di Angela Merkel, com’era fino al febbraio del 2022, e quella attuale, ormai isolata dai paesi europei).
Adesso l’asse spaziale prevalente è quello verticale Nord-Sud. E la Russia, a dispetto della sua collocazione geografica, è legata al secondo di questi poli. Basta scorrere la lista dei paesi che non intendono allinearsi alla politica di contrapposizione proposta dal presidente Zelens’kyj e sposata senza riserve dalla NATO, per rendersi conto che anche gli Stati che non sono membri del BRICS – per esempio il Messico – costituiscono il Sud rispetto a un Nord (nel caso del Messico, gli Stati Uniti) molto più ricco.
Essi in buona parte non condividono la cinica politica dittatoriale e imperialista di Putin, ma non intendono allinearsi con un ex Occidente che forse non è mai stato, come pretendeva, il paladino della libertà.
Quale libertà
Peraltro, la nuova contrapposizione spaziale tra Nord e Sud ha, al di là del gioco diplomatico e della collocazione politica degli Stati, una portata che la rende assai meno ideologica di quella del passato tra Est e Ovest – qui non c’è più il conflitto tra filosofia liberale e marxismo – , ma più drammatica sul piano esistenziale. Perché rientra in essa il problema dei grandi flussi migratori che dal Sud cercano di raggiungere il Nord, venendone sempre più duramente respinti.
Così è nel caso dell’immigrazione che dal Messico proietta i latinos poveri verso la frontiera degli Stati Uniti, suscitando le ire di Trump e le sempre più decise misure restrittive di Biden.
Così è nel caso dell’Europa, sempre più sensibile alla linea della Meloni, che in Italia mira a respingere gli “invasori” cercando di bloccarli in campi di concentramento fuori delle frontiere, in Libia e Tunisia o in Albania. Così è nel caso del Regno Unito, dove il premier Sunak ha fatto recentemente passare una legge che prevede la deportazione degli immigrati nel Ruanda.
La caduta del muro di Berlino, nel 1989, ha segnato la fine della contrapposizione tra Est ed Ovest. Ma ora nuovi muri sorgono dappertutto, in America come in Europa, tra Nord e Sud. Con un numero di vittime enormemente superiore a quelle cadute nel passaggio del muro di Berlino. E creando un clima che da un lato è quello della difensiva ad oltranza, dall’altro quello della disperata ricerca di una migliore condizione di vita. Il «nuovo ordine mondiale», rischia, così, di essere un ritorno a quello dell’odio e della paura.
Con la differenza, che qui, ad alzare le barriere non sono più dei paesi totalitari, ma le nostre democrazie – le stesse che hanno lottato per la libertà e che ora sembrano aver concluso che quella che volevano era solo la “loro” libertà, da cui cercano di tenere lontani quanti vorrebbero esserne partecipi.
Tuttavia.eu, 20 Giugno 2024
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