di ANTONELLO FRANCICA
Riproponiamo la emozionante testimonianza di Antonello Francica
La Memoria di una città può intrecciarsi con quella di un uomo, un grande uomo, anche se l'incontro è stato forse determinato dal caso. È così per Padova e per Enrico Berlinguer, morto nella città di Sant'Antonio l'11 giugno 1984 dopo un ictus devastante che lo colpi durante un comizio per le elezioni europee di quell'anno. Erano due mondi diversi: l'uno leader del più grande Partito comunista d'Occidente, l'altra ancora in quegli anni terra democristiana, ma incendiata dalla furia del terrorismo rosso e nero che per molto tempo ne condizionò la convivenza civile con centinaia di attentati, omicidi e agguati a uomini delle istituzioni, della cultura e dell'informazione.
Eppure Berlinguer e Padova oggi sono impossibili da scindere, perché legati da una Memoria che a distanza di decenni è più viva che mai; anzi, più passa il tempo e più le emozioni di quel tempo che sembra lontanissimo, riprendono vigore tornando a galla come a non voler mai morire.Il calendario ricorda che sono passati 36 anni dalla morte di Enrico Berlinguer, e tra i testimoni di quel dramma umano, familiare e collettivo, ci sono anch'io anche se non ho assistito direttamente al malore che lo uccise a 62 anni appena compiuti. Ma da quella stessa notte fino all''11 giugno ho seguito per il mio giornale - il Mattino di Padova, dove ero arrivato dalla Sicilia tre anni prima - tutte le fasi intense e concitate dell'agonia dell'allora segretario del Partito comunista italiano.
Il film di quelle giornate, che alla fine sono diventate un'esperienza a prova di ruggine per le tracce lasciate sulla mia coscienza personale e professionale, comincia proprio nella notte in cui Berlinguer fu operato al cervello da un'equipe del Policlinico di Padova guidata dal neurochirurgo Salvatore Mingrino, siciliano di Agrigento. L'intervento si concluse intorno alle quattro del mattino, quando ormai la notizia del malore di Berlinguer era arrivata in tutto il mondo. All'alba o poco dopo arrivarono a Padova la moglie Letizia Laurenti con i figli Bianca, Maria, Marco e Laura, oltre che il fratello Giovanni con la moglie GIuliana e il medico di famiglia Francesco Ingrao, fratello di Pietro.
Presero tutti alloggio al Plaza, uno degli alberghi più noti della città, dove peraltro aveva preso una stanza lo stesso Enrico, e per quattro giorni hanno seguito con grande dignità l'agonia del marito, padre e fratello. Giornate segnate da rarissimi momenti di ottimismo, perché la situazione, fin dall'inizio, si è mantenuta grave. Nessuno dei bollettini ufficiali di quei giorni autorizzava a pensare ad un esito favorevole. In un caso il professor Giampiero Giron, direttore di Anestesia e Rianimazione, disse che "non c'è un aggravamento particolare. L'aggravamento sta nel fatto che non c'è un miglioramento" come ricordano Piero Ruzzante e Antonio Martini nel loro libro su quei giorni, molto bello e documentato ("Eppure il vento soffia ancora", Utet). Il professor Giron aveva trovato il modo per placare l'ansia di tutti, cronisti compresi. Mentre in ospedale Berlinguer lottava contro la morte, al Plaza la signora Letizia e i figli non volevano creare disagi e anzi si scusavano continuamente con la direzione dell'albergo, davanti al quale stazionavano frotte di curiosi. In quei momenti così drammatici riuscivano anche a preoccuparsi per gli altri.
Poche ore dopo il malore, Padova era diventata il quartier generale del Partito comunista italiano, con l'arrivo di molti dirigenti a cominciare da Pajetta e Pecchioli, insieme a Bufalini, Zangheri, Pellicani. A Roma, a presidiare Botteghe oscure - sede storica del partito - c'era Alessandro Natta, che poi succederà a Berlinguer alla segreteria del Pci.
E dalla mattina dopo la città si trasformò in una piccola capitale della politica. Già alle 9.30 dell'8 giugno, a poche ore dall'intervento, prefetto, questore e tutte le autorità erano pronte ad accogliere il presidente della Repubblica Sandro Pertini che da quel momento in poi non si mosse più da Padova, salvo un blitz a Vicenza per un impegno ufficiale. Si fece subito accompagnare in ospedale e volle entrare nella cameretta gelida della Rianimazione che ospitava il segretario del Pci. Pertini incontrò poi i giornalisti con la faccia sconvolta. Dopo il Presidente, il taccuino si riempì di nomi di peso del panorama politico nazionale: Scalfaro, allora ministro dell'Interno, Cossiga, allora presidente del Senato, Spadolini e via via decine decine di protagonisti della vita politica di quel tempo , fino a De Mita, in quel momento segretario della Dc, e a Craxi, presidente del Consiglio.
La visita di Craxi merita un'attenzione particolare. Avvenne domenica 10 giugno 1984, nelle prime ore del pomeriggio. Ma soprattutto avveniva ad un mese dal congresso nazionale del Psi di Verona, dove Berlinguer era stato accolto da una selva di fischi. L'episodio, come molti giornalisti della mia generazione ricorderanno, aveva acuito le frizioni tra i due partiti "fratelli", come disse Giovanni Berlinguer, fratello di Enrico. Giovanni si espresse così per tenere a bada militanti e cittadini comuni che minacciavano di riservare a Craxi lo stesso trattamento ricevuto da Berlinguer a Verona. Così, con l'aiuto anche del servizio d'ordine del Pci, Craxi, accompagnato da De Michelis, ministro degli Esteri, entrò in ospedale senza incidenti. Il presidente del Consiglio e leader del Psi fu anch'egli colpito da quella "brutta aria" che si respirava dentro l'ospedale. Volle conoscere ogni dettaglio dell'intervento, parlò a lungo con Pecchioli e Tato', braccio destro di Berlinguer, e poi lascio il Policlinico senza rilasciare dichiarazioni. Il viso era rabbuiato, sapeva cosa stava per succedere.
Fuori, si moltiplicavano i pellegrinaggi di migliaia di cittadini, di operai con le bandiere rosse, di simpatizzanti del PCI che continuavano ad affiggere manifesti sui cancelli dell'ospedale: "Resisti", "Enrico ti vogliamo bene". Si può dire che non ci sia stato un padovano che non abbia partecipato alla tragedia che si stava consumando . Perfino un gruppo di suore volle incontrare i dirigenti locali del Pci cui raccontarono di aver pregato per Berlinguer. La città era scossa, attonita.
Padova era tutta stretta attorno a Berlinguer e alla sua famiglia, senza mai cessare di farlo lungo l'arco di quei quattro giorni pieni di tristezza. Specialmente l'11 giugno, quando Berlinguer morì.
Già nella notte le voci di un precipitare della situazione si erano rincorse freneticamente, ma l'annuncio ufficiale arrivò alle 12.51. Un attimo prima, a me è capitato di incrociare gli occhi della signora Letizia. Erano gonfi di lacrime senza però che ne fosse sgorgata solo una. Io mi convinsi che tutto era finito, e credo che anche lei capi quel che avevo appena pensato. Non mi sono avvicinato, e non mi vergogno di dire che mi ha fermato il suo dolore. Sono occhi ai quali ho pensato spesso in tutti questi anni, e questa cosa è per me uno dei pezzi più preziosi di una vita professionale ricca e lunga. Poi la vidi andar via con i figli stretti attorno a lei mentre il Presidente Pertini imponeva la sua decisione. "La salma di Enrico torna a Roma con me, sul mio aereo". Su quel jet di Stato, naturalmente, trovarono posto anche la moglie e i figli del "caro Enrico".
Poi, fuori, decine di migliaia di persone seguirono il corteo funebre lungo i 35 chilometri che separano Padova dall'aeroporto di Venezia.
Da allora la memoria di Padova è anche la Memoria per un leader politico amatissimo e, appunto, indimenticabile.
L’Ora, edizione straordinaria, 12/6/2024
Le pagine dell'edizione straordinaria de L'Ora per la morte del segretario generale del PCI, dall'archivio storico custodito a Palermo presso la Biblioteca Centrale Regionale
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