lunedì, maggio 06, 2024

LO SCIOPERO ALLA RAI. La politica dei nuovi padroni


L’invocazione “fuori i partiti politici dalla Rai” è diventata una giaculatoria stantia, alla quale nessuno crede ormai veramente. Anche perché, dopo un’azione di spoils system (che letteralmente significa “sistema del bottino”) portata da questo governo ben al di là di ogni precedente, bisognerebbe semmai passare dal plurale al singolare, vista l’assoluta prevalenza di un partito nelle posizioni apicali del servizio pubblico, specie in quelle dell’informazione. 

DI PAOLO GARIMBERTI

È questo, infatti, il motivo del contendere della giornata di sciopero proclamata per oggi e contestata dal neonato sindacato Unirai. Un tempo chi invitava a sabotare uno sciopero veniva definito un crumiro, parola che sembrava ormai desueta. Ma l’unicità della situazione che si è creata in Rai è che il crumiraggio viene proposto da un sindacato, che addirittura invita chi è di riposo ad andare a lavorare per far fallire lo sciopero. Anche l’esistenza di un sindacato alternativo all’Usigrai, il sindacato dei giornalisti del servizio pubblico, è un unicum nella storia della Rai. 
Unirai resta, per il momento, un sindacato largamente minoritario tra i duemila giornalisti del servizio pubblico radiotelevisivo. Ma è anche fortemente elitario, visto che conta tra i suoi aderenti quattro direttori su cinque testate

dell’informazione: Tg1, Tg2, Rainews e Rai Sport. Sembra essere nato per garantire il “bottino”, appunto, del governo, e soprattutto del partito della presidente Meloni, piuttosto che per tutelare i diritti e le libertà dei giornalisti, graduati e non. 
Del resto, l’accusa che Unirai rivolge a Usigrai è di aver indetto uno sciopero politico, cioè per denunciare l’informazione sempre più a senso unico dei canali della Rai. Che non solo è autolesionista perché dirotta ascolti sui canali della concorrenza. 
Ma è uno dei principali fattori del peggiorato posizionamento dell’Italia nel rating della libertà d’informazione, di cui Repubblica ha dato ampiamente conto. 
E qui torniamo al punto di partenza. Chiedere che la politica stia fuori dalla Rai (e si può dire dai servizi pubblici radiotelevisivi della maggior parte dell’Unione europea, visto che la Brexit ha messo la Bbc fuori concorso) è un wishful thinking , cioè scambiare un desiderio con la realtà. 
Da sempre, perfino dai tempi un cui c’era un solotelegiornale, peraltro mirabilmente gestito da grandi professionisti (Fabiano Fabiani, Biagio Agnes, tanto per fare un paio di nomi, ma non sono stati i soli). La stessa struttura del servizio pubblico, che conosciamo oggi, sembra quasi concepita per accontentare le brame della politica. 
Una vecchia battuta asseriva che i criteri di assunzione rispondevano a una precisa logica di ripartizione: “Un democristiano, un socialista, un comunista e uno bravo”. Era una cattiveria in grande misura ingiusta per i giornalisti del servizio pubblico,ma traduceva la linea politica prevalente dei tg: il primo governativo, il secondo socialista e il terzo comunista. 
Lottizzazione, cioè il termine che definiva questo assetto è stato coniato nel 1974 da Alberto Ronchey nel suo saggio Accadde in Italia .Ma la lottizzazione era anche un modo per garantire un pluralismo informativo, che oggi è sempre più in pericolo. 
La politica è stata fuori da Viale Mazzini soltanto nella breve parentesi della “Rai dei professori”, quando i partiti della Prima Repubblica erano caduti e la guida del servizio pubblico era stato affidata a un professore, Claudio Dematté, che, con il direttore generale Gianni Locatelli, poteva scegliere i direttori dei tg in base alle sua valutazioni e non alle indicazioni dei partiti. Ma durò davvero poco quella felice e, in gran parte, casuale autonomia decisionale. 
La spazzò via la “discesa in campo” e il successivo ingresso a Palazzo Chigi di Silvio Berlusconi. Il quale inizialmente praticò uno spoils system selvaggio, mettendo in tutti i posti-chiave della Rai, soprattutto nell’informazione, suoi fedelissimi. Ma in seguito capì che la vecchia lottizzazione era un’utile foglia di fico, che gli consentiva di negare di possedere sei canali televisivi e dava comunque una parvenza, e non soltanto formale, di pluralismo al servizio pubblico. 
Una saggezza, o se si vuole una furbizia politica, quella di Silvio Berlusconi, che i partiti della destra oggi al governo non hanno voluto seguire. 
Ossessionati come sono dall’idea che l’informazione della Rai non debba essere al servizio del pubblico, ma soltanto al loro servizio. Una visione padronale, che Unirai ha abbracciato, andando contro la natura stessa del sindacato. 

La Repubblica, 6 maggio 2024

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