L’intervento dell’avv. Ettore Barcellona |
Il 16 maggio 1955 la mafia uccideva Salvatore Carnevale, socialista, sindacalista della Cgil, fondatore e segretario della Camera del lavoro di Sciara, da anni attivo nella difesa dei diritti dei lavoratori agricoli.
Del suo omicidio vengono accusati quattro mafiosi di Sciara, dipendenti della principessa Notarbartolo: l’amministratore del feudo Giorgio Panzeca, il magazziniere Antonio Mangiafridda, il sorvegliante Luigi Tardibuono e il campiere Giovanni di Bella.
La vicenda processuale relativa all’omicidio di Salvatore Carnevale è interessante perché, tra l’altro, vede protagonisti due futuri presidenti della Repubblica (tre, se si considera anche la visita a Francesca Serio di Giorgio Napolitano, arrivato tra i primi sul luogo del delitto): Sandro Pertini sarà a fianco della madre di Carnevale, quale legale di parte civile, per tutta la durata del processo; mentre nel collegio di difesa degli imputati compare (solo per la Cassazione) un altro futuro presidente della Repubblica, l’avvocato Giovanni Leone.
*avvocato di parte civile del Centro Studi Pio La Torre di Palermo
Le indagini sull’omicidio e sulle quattro persone denunciate dalla madre di Carnevale furono svolte dal procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione (poi caduto anch’egli vittima della mafia): i quattro indagati, poi imputati, furono fermati e tradotti in carcere poiché gli alibi non ressero alle verifiche e un testimone si lasciò scappare di aver visto uno di loro sul luogo del delitto.
Sulla base di queste indagini, peraltro abbastanza controverse poichè registrarono una perizia balistica che durò più di un anno e la circostanza paradossale che uno dei testimoni fu messo nella stessa cella con uno degli accusati, con la ovvia conseguenza che ritrattò le accuse, si aprì il processo.
Il processo, non si svolse in Corte Assise a Palermo, sede del giudice naturale, posto che i difensori degli imputati, asserendo il grande clamore mediatico esistente sul caso a Palermo (era in corso una campagna diffamatoria da parte di alcune testate giornalistiche che ipotizzavano una pista interna, una vendetta di compagni di partito), ottennero che lo stesso venisse trasferito, invocando la legittima suspicione, alla Corte d’Assise presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
Nel processo la madre di Salvatore Carnevale, parte civile, fu rappresentata dal futuro presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini, e dagli avvocati Nino Taormina e Nino Sorgi, anche loro socialisti.
Il processo di primo grado iniziò il 18 marzo 1960 e si concluse il 21 dicembre 1961 con la condanna, in primo grado, all’ergastolo di tutti e quattro gli imputati, accogliendo così la ricostruzione del delitto fatta da Scaglione, Pertini, Sorgi e Taormina.
Purtroppo la sentenza non resse in appello e la corte di assise di appello assolse tutti gli imputati per insufficienza di prove. L’assoluzione venne successivamente confermata in Cassazione.
Facciamo un passo indietro, specificamente, sulla legittima suspicione e quindi la ragione per la quale il processo non è stato celebrato in Assise a Palermo.
Tale istituto bsi pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell’imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti e prevede che quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo, ovvero la sicurezza o l’incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Cassazione, rimette il processo ad altro giudice.
Quindi, di fatto, una deroga al Giudice naturale che è quello del locus commissi delicti.
Si tratta di un istituto previsto anche oggi dal nostro codice, in particolare, dall’art. 45 c.p.p., che trova applicazione in casi del tutto eccezionali, anche perchè le norme sulla rimessione, non più legittima suspicione, devono essere interpretate restrittivamente.
Vi fu una difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica (anni 60), in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove.
Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi - tra i quali, a parte i processi di mafia, la strage di piazza
Fontana e la strage del Vajont - e addirittura dopo l’entrata in vigore del nuovo codice del 1989 soltanto due.
Se si leggono gli atti dei processi di mafia si scopre che la richiesta di legittima suspicione viene utilizzata a man bassa, come una chiave magica usata per ottenere in sedi più consone assoluzioni totali o per insufficienza di prove. Uno dei casi più eclatanti fu il
processo per la strage di Portella delle Ginestre (1947). Nel 1950 il processo viene spostato da Palermo a Viterbo: la banda di Salvatore Giuliano viene condannata ma i mandanti assolti. Poi la strage di Ciaculli del 30 Giugno 1963, in occasione della quale rimasero uccisi sette membri delle forze dell'ordine, che provocò la prima reale ed efficace offensiva dello Stato nei confronti di Cosa Nostra palermitana, che venne decimata dagli arresti. HChiude la prima guerra di mafia.
Il processo incentrato sulla prima guerra di mafia, tenutosi a Catanzaro e conclusosi il 22 Dicembre 1968, nella cui cornice erano imputati 117 uomini d'onore delle cosche della città di Palermo, diede risultati sconcertanti: vennero assolti quasi tutti i mafiosi che erano stati portati alla sbarra, con l’eccezione di Angelo La Barbera, Pietro Torretta, Salvatore Greco e Tommaso Buscetta.
Dalle motivazioni della sentenza emerge chiaramente come la mafia
palermitana non sia stata affatto inquadrata come un’associazione
organica, gerarchica e centralizzata, ma come un complesso di fatti ed hindividualità tra loro indipendenti e dunque non inseribili all’interno dello stesso calderone a livello giuridico.
Un anno dopo, a Bari, si tenne un processo in cui ad essere imputati per associazione a delinquere ed omicidio erano 64 uomini, tutti quanti corleonesi. La Procura chiese per loro 3 ergastoli e un ammontare di 300 anni di carcere. Il 10 Giugno 1969 la Corte pronunciò 64 sentenze di assoluzione: tra i nomi di coloro che vennero salvati dal carcere sono presenti anche quelli di Luciano Liggio, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. “L'equazione mafia uguale associazione a delinquere - si legge nel dettato della sentenza - sulla quale hanno così a lungo insistito gli inquirenti è priva di apprezzabili conseguenze sul piano processuale”.
Questo è avvenuto a causa di uno uno Stato debole ma anche per la mancanza del sostegno di una popolazione ancora estremamente disinformata rispetto al fenomeno della crescita esponenziale della criminalità organizzata di stampo mafioso. Infatti, la mafia siciliana risorse dalle ceneri delle sentenze dei processi di Catanzaro e Bari e si dimostrò subito pronta a fare molto, molto male (strage di viale Lazio) seconda guerra di mafia, periodo stragista, la mafia corleonese.
Ma sopratutto ciò è accaduto in conseguenza della mancanza di un adeguato supporto legislativo antimafia (la legge Rognoni - La Torre, che introdusse il reato di associazione mafiosa nel codice penale, verrà approvata solo nel 1982).
E, successivamente, sulla scorta dei nuovi strumenti legislativi adatti a combattere il fenomeno, alla stagione del pool antimafia, il fenomeno del pentitismo, Buscetta e la spiegazione della struttura e dei metodi di cosa nostra, la chiamata di correo si è registrata quell’azione repressiva giudiziaria dal Maxiprocesso ai giorni d’oggi, che ha consentito di raggiungere sorprendenti risultati nella repressione del fenomeno mafioso.
Lasciato alle spalle il fenomeno corleonese con la cattura di Matteo Messina Denaro, c’è da chiedersi come si è strutturata la mafia oggi e quale sarà il futuro.
Già dopo le stragi del ‘92 cosa nostra inizia il periodo della sommersione voluta da Provenzano, cioè la fine dello scontro frontale con lo stato e la ripresa di legami con i poteri forti, politico ed economico. Con azioni sottotraccia non solo per non suscitare allarme sociale ma anche per sfuggire alle inchieste della magistratura e degli apparati investigativi. E per questo si è cercato di ricomporre la “tradizionale convivenza con lo Stato” del periodo precorleonese (Bontade). Si è venuta così configurando un’associazione che, pur recuperando la sua capacità operativa, è diversa da quella del lungo periodo stragista, nel senso che ha cambiato pelle ma ha mantenuto il suo radicamento territoriale, assicurato dalle singole “famiglie”, e la sua pericolosità. E ha soprattutto allargato lo sguardo a uno scenario internazionale.
Va colto soprattutto il cambiamento impersonato da soggetti in grado di muoversi su un terreno tra il lecito e l’illecito. Giovani di famiglie mafiose, hanno intrapreso studi e percorsi formativi per assumere le competenze di nuovi manager. Avanza dunque una linea tecnocratica che riporta la mafia dentro una rete di poteri intessuti con la politica, la finanza, l’economia, la massoneria, pezzi importanti del mondo professionale. Ma è soprattutto l’orizzonte internazionale a riservare e a rivelare, fino a che punto si spinga la “capacità di rigenerazione” di cosa nostra. Un’operazione recente ha fatto riemergere i legami con le “famiglie” americane più legate alla Sicilia, come quella dei Gambino: segno che la mafia non vuole sopravvivere a Riina e Messina Denaro nella forma di un fenomeno criminale locale.
Oggi le mafie si presentano in vesti diverse e in parte meno evidenti
Alcuni dati potrebbero farci pensare che le mafie del XXI secolo siano sempre più interessate alle speculazioni sui mercati finanziari, alla dimensione transnazionale, al riciclaggio tramite movimenti di capitali su conti afferenti a paradisi fiscali, alle monete virtuali (criptovalute), alle scommesse e in genere al gioco on line, a varie forme di cybercrime, a tante altre attività in rete, e così via. Pertanto, si assisterebbe a una netta tendenza verso la deterritorializzazione e la smaterializzazione delle attività dei sodalizi mafiosi.
È veramente così? Certamente è plausibile che, a fronte delle grandi disponibilità di denaro che caratterizzano alcuni di tali sodalizi, una parte degli introiti venga canalizzata nelle direzioni suddette. Ma fino a che punto? Potranno ancora dirsi mafiose organizzazioni criminali dedite esclusivamente ad attività disancorate dai territori e quasi del tutto prive di un contatto fisico con le vittime, con i fiancheggiatori, tra gli affiliati?
A essere più precisi, in primo luogo non è affatto detto che tutti i boss a tutte le latitudini siano in grado di rinunciare all’estorsione e in genere al controllo del territorio. Per alcuni, forse per tanti, si tratta ancora di una delle principali fonti di reddito. Per di più, molti di essi non saprebbero fare altro. In secondo luogo, anche i clan più ricchi e all’avanguardia hanno in realtà convenienza a conservare un quantum di mafiosità. Infatti, a seconda del tipo di affari in ballo, un conto è presentarsi come semplici trafficanti, faccendieri, uomini d’affari dediti a transazioni illecite, ma ben altra cosa è essere preceduti da un’aura mafiosa, con la sua forza intimidatoria. Di conseguenza, anche i boss del terzo millennio saranno presumibilmente interessati a mantenere tale aura, che necessariamente richiede attività radicate sui territori e interazioni fisiche con vittime da assoggettare, sia pure con un ricorso alla violenza esplicita sempre più rarefatto e con forme di oppressione attenuate
D’altro canto, il futuro della mafia dopo Matteo Messina Denaro si prospetta, come una evoluzione di metodi criminali che da un lato lascia indietro la componente terroristica e dall’altro tende a sviluppare una presenza organica nel sistema economico e sociale proponendosi come una “agenzia di servizi” in concorrenza con lo Stato. Questi sono i tratti di quella che si potrebbe definire una “mafia sostenibile” che proprio perché non opera con metodi terroristici diventa una componente strutturale non più percepita come un pericolo pubblico. “Il problema della borghesia mafiosa - espressione pure utilizzata dal dott. Maurizio De Lucia, procuratore della repubblica di Palermo, all’indomani dell’arresto di Matteo Messina Denaro - nasce dal fatto che è spesso diretta conseguenza di una connivenza con fenomeni criminali utilizzati come ‘agenzie di servizi’ di cui la gente si serve per svolgere attività difficili da ottenere da parte delle istituzioni pubbliche”.
Tutto questo fa temere che si verifichi ciò che accadeva in passato, cioè la ricostituzione di un rapporto fra la gente e cosa nostra vista, sosteneva il dott. Paolo Borsellino, come una “istituzione parallela e alternativa allo Stato”.
In un panorama dell’agire mafioso che è sicuramente mutato rispetto agli anni passati nel senso di un’attività meno eclatante e, quindi, meno percepibile dalla generalità dell’opinione pubblica, si registra un preoccupante calo di interesse da parte delle istituzioni e, soprattutto, della politica.
I risultati del questionario sulla percezione del fenomeno mafioso rivolto agli studenti che partecipano al progetto educativo antimafia organizzato da 18 anni dal Centro Pio La Torre sono inquietanti:
pur nel ripudio della mafia, la maggioranza degli studenti è convinta che la mafia sia più forte dello Stato e perciò ineliminabile.
Sono segnali, da non sottovalutare, si tratta di un indicatore della loro sfiducia verso la classe dirigente e verso i partiti. In questo clima di sfiducia, la mafia, per molti cittadini, nonostante l’efficacia della legislazione antimafia introdotta dalla legge La Torre e dell’impegno repressivo giudiziario dello Stato, appare ineliminabile anche per la contraddittorietà delle politiche governative che alimenta un sottile processo di smantellamento della legislazione antimafia e anticorruzione: si vedano Codice Salvini sugli appalti, le proposte di abolire il reato-spia dell’abuso d’ufficio e di impedire l’uso del trojan contro i reati di corruzione, l’abrogazione della legge Severino per i non candidabili, di consentire le intercettazioni solo per 45 giorni.
Quindi, in definitiva, cosa nostra dopo la sconfitta delle mafie stragiste di quaranta e trent’anni fa si è internazionalizzata sul piano finanziario, ha sparato di meno, ha corrotto di più, si è infiltrata nella gestione diretta delle imprese, dove ha potuto riversare i profitti dei suoi traffici illeciti è entrata in politica.
A fronte di questa evoluzione occorre quindi una parallela evoluzione dei metodi di prevenzione e di repressione dello Stato, l’internazionalizzazione degli strumenti della Rognoni La Torre, la sviluppo di metodi di indagine tecnologici e globali, l’armonizzazione delle legislazioni europeee.
Prescindendo dalla repressione giudiziaria, la lotta alla mafia soprattutto si fa educando alla legalità quindi su di un piano culturale e sociale.
Sul piano sociale approntando da parte delle istituzioni tutti quegli strumenti adatti a promuovere lo sviluppo degli individui, del lavoro dei servizi, sul piano culturale insegnando alle nuove generazioni il valore della legalità.
In un ottica di educazione alla legalità, componente fondamentale della lotta al fenomeno mafioso, noi del Centro Pio La Torre svolgiamo un’attività che ha pochi eguali nel territorio nazionale attraverso i progetti educativi antimafia - che coinvolgono scuole università e, da qualche anno, anche istituti penitenziari - e le altre molteplici attività, caratterizzate
principalmente da un approccio culturale educativo imprescindibile per una efficace opera di contrasto alle mafie.
Da anni, all’indomani di una operazione antimafia, contattiamo i Sindaci dei Comuni il cui territorio è interessato dai reati di mafia, stimolandone la Costituzione di parte civile dell’Ente locale e offrendo l’assistenza legale gratuita del Centro (v. per es. l’Operazione Black Cat che ha visto costituirsi parte civile con il Centro La Torre ben 24 Comuni del territorio madonita) e ciò nell’ottica che il primo segnale di contrasto ed estraneità alla mafia lo deve dare proprio l’amministrazione locale più vicina ai bisogni dei cittadini.
Tutto questo si scontra, però, con un sostanziale disinteresse politico al fenomeno: di mafia non si parla più nei programmi politici e vi sono tanti piccoli segnali che sembrano andare nel senso di uno smantellamento della legislazione antimafia (la più evoluta al mondo) anziché registrare interventi di adeguamento alle mutate condizioni del panorama economico mafioso.
Ma noi siamo fiduciosi e riteniamo che tutte le occasioni, come quella di oggi, in cui si parla di mafia servano a non dimenticare quello che è successo e ad insegnare specialmente alle nuove generazioni che senza la mafia si vive meglio.
Avv. Ettore Barcellona
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