L’intervista alla nipote del martire socialista ucciso un secolo fa
di Concetto Vecchio
Laura Matteotti, lei è la nipote di Giacomo?
«Sì, e di secondo nome mi chiamo Giacomina».
Suo padre era il figlio di Giacomo?
«Matteo Matteotti era il secondogenito di Giacomo Matteotti e di Velia Titta. Aveva tre anni quando suo padre venne assassinato da una banda di fascisti».
Com’era suo padre?
«Ombroso, timido, molto concentrato sulla sua carriera politica. È stato due volte ministro, per il Psdi, del Commercio estero e dello Spettacolo, tra il 1970 e il 1974».
Che rapporto aveva con lui?
«Pessimo».
Perché?
«È difficile da spiegare qui.
L’omicidio del nonno rappresentò un trauma. Velia rimase vedova con tre figli piccoli da crescere, mio padre cominciò a stare male, come del resto i suoi fratelli, zio Carlo e zia Isabella».
Lei nel libro “Io vi accuso” rivela che suo padre non le parlò mai di suo nonno.
«Confermo».
Non è incredibile?
«È orribile».
Una rimozione?
«Non ho mai capito perché. Forse voleva proteggere me e mia sorella Elena da questo suo dolore».
Evitare un trauma?
«Mio padre era anaffettivo, devo dirlo. Aveva un carattere molto chiuso, riservato, anche se poi, nei momenti più strani, sapeva essere molto simpatico».
In che senso?
«Alle feste, o nelle serate con gli amici, raccontava le barzellette, era comico».
Come ha saputo di Giacomo Matteotti?
«Agli esami di terza media mi chiesero di parlare di mio nonno. “Mio nonno chi?” ho risposto. Sono tornata a casa sconvolta, trovai i miei genitori a pranzo, e domandai: “Scusatemi, ma chi era Giacomo Matteotti?”».
E i suoi?
«Non dissero niente. Silenzio completo. Poi mi ritirai nella mia stanza e i miei genitori nella loro, come sempre avveniva».
Ma adesso che sono passati 50 anni che spiegazione si è data?
«Eh! Probabilmente mio padre non amava le figlie. O semplicemente non voleva affrontare il trauma, che per lui è stato molto, molto forte».
Lei quindi è cresciuta senza sapere chi fosse Matteotti?
«In un certo senso sì, poi ho fatto la mia vita, ho cominciato a fare la fotografa».
E quando l’ha scoperto?
«Al funerale di mio padre, nel 2000, a Fratta Polesine. Ho dormito nella stanza che era stata di Giacomo e Velia. C’era tantissima gente, tutti mi baciavano, mi abbracciavano, i vecchi tiravano dal portafoglio i santini di mio nonno. Erano proprio stravolti nel vedermi lì. A un certo punto ho incontrato Stefano Caretti».
Il grande biografo di Matteotti.
«Sì, il curatore delle lettere di Giacomo a Velia, e di Velia a Giacomo. Mi ha portato sulla tomba, e poi mi ha invitato a Firenze, dove era stata allestita una mostra».
E lì ha cominciato a studiarlo?
«Sì, piano piano ho cominciato a capire tutta la storia. Più quella romantica della politica».
Quanti anni aveva nel 2000?
«Oggi ne ho 62. Quindi allora ne avevo 38».
Molto tardi.
«Sì, ero distratta, disegnavo, fotografavo, facevo altro».
E adesso?
«Ma ora insieme con Elena ci stiamo liberando da questa mancanza, anche lei è tornata di recente e a Fratta. Ne parliamo».
Suo padre aveva ricordi di Giacomo?
«Non credo. So che si è fatto aiutare da uno psicoanalista, che lo ha aiutato a vincere il lutto. Ci è andato per anni. Ha sofferto di gravi depressioni».
I suoi dove si conobbero?
«A Oderzo, durante un comizio. Mia madre, che era bellissima, s’innamorò perdutamente sentendolo parlare. Gli scrisse un biglietto e glielo infilò nella tasca della giacca».
Il fascismo infiltrò per tredici anni una spia a casa di Velia, dopo l’assassinio di Giacomo.
«Mio padre scoprì dopo la guerra che quello che credeva un amico era una spia. L’ha manovrato, mio padre si è lasciato manovrare. Era giovane, aveva bisogno di molto affetto».
È stata dura per Velia?
«Sì, quando passava con i figli i fascisti le sputavano addosso».
Non volle stringere la mano a Mussolini.
«È stata di grandissima dignità. Le sue lettere sono pazzesche».
È vero che Giorgio Almirante, il segretario del Msi, veniva a prendere il tè a casa vostra?
«Sì, anche due volte a settimana.
Almirante era sempre elegantissimo. Ricordo che li spiavo dal salone mentre conversavano. Mio padre mai me lo presentò, per cui ho questo ricordo di me che li spio dalla porta».
Non è un episodio sorprendente?
«Non saprei dire cosa avessero in comune. Forse gradivano lo stessotè».
Cosa le piace di Matteotti?
«Il suo impegno per i poveri, l’intransigenza contro il fascismo».
Con ritardo sta venendo fuori.
«Era stato come dimenticato. C’è bisogno che una figura così venga fuori, per capirecos’è stato il Ventennio».
Come spiega la dimenticanza?
«Matteotti fa ancora paura, perché era uno tosto, uno che ha denunciato i brogli delle elezioni del 1924. E quindi l’hanno fatto fuori».
Il governo Meloni lo sta ricordando?
«Assolutamente no. Perché sono fascisti».
E lei sta riscoprendo anche suo padre?
«Sì, forse ora capisco i suoi silenzi.
Vede, in questa storia c’è un trauma pubblico ma ce n’è uno anche privato».
La Repubblica, 13/5/2024
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