A destra: Paolo Suleman, ritenuto dagli inquirenti il reggente della famiglia di Corso Calatafimi |
GIOVANNI BURGIOL’arresto martedì 19 marzo di Paolo Suleman, Rosario Lo Nardo e Giuseppe Marano, appartenenti alla famiglia mafiosa di Corso Calatafimi, dimostra ancora una volta come l’avvicendarsi dei vari personaggi al vertice dei clan palermitani è continuo e precario. E, perdipiù, determina conflitti, dissensi e malumori all’interno delle cosche.
Infatti, quando i capi vengono arrestati e i sottocapi ne prendono il posto, non tutti gli affiliati alla famiglia sono d’accordo con queste successioni. Inoltre c’è la rabbia dei carcerati che spesso sono insoddisfatti sia delle condizioni in cui vengono lasciati i propri familiari sia delle scelte fatte da chi sta fuori.
La storia di Paolo Suleman, ritenuto dagli inquirenti il reggente della famiglia di Corso Calatafimi, racchiude in sé tutti questi importanti elementi che caratterizzano l’attuale l’evoluzione di Cosa Nostra palermitana.
Cresciuto all’ombra di Gianni Nicchi, giovane boss che guidava il mandamento di Pagliarellidopo l’arresto di Nino Rotolo, Suleman ne diventa uomo di fiducia, organizzandogli perfino le vacanze del 2008 a San Vito Lo Capo e in Calabria. Arrestato nel 2011 nell’operazione “Hybris”, Suleman, dopo aver scontato otto anni di carcere, torna libero e pretende di comandare nella sua zona di competenza. Ad appoggiare la sua reggenza c’è il capofamiglia in carcere Francesco Annatelli, contrari i Badagliacca della famiglia di Rocca-Mezzomonreale. Questi ultimi, considerando che il Suleman fosse “un buscapane non all’altezza della situazione”, volevano delimitare il suo potere in un territorio che aveva come confine viale Regione siciliana “Per ora lo lasci a firriare da Pietratagliata in giù, da corso Calatafimi a scendere”; cioè il lato mare sarebbe stato attribuito al Suleman, il lato monte alla famiglia Badagliacca.
Come ulteriore esempio di rancore che cova all’interno delle cosche abbiamo il rapporto fra l’Annatelli e il Suleman, che quando si avvicendano in carcere, si rimproverano reciprocamente di non adempiere all’obbligo di fornire sostentamento ai familiari dei carcerati.
Anche lo sfogo di Giuseppe Marano contro Suleman può fornire un ulteriore prova che non tutto fila liscio nella vita quotidiana dei clan. Infatti, quando si deve dare una punizione a un uomo che ha picchiato la moglie incinta, Suleman si produce in un’azione che provoca la forte disapprovazione del Marano “Lo stava ammazzando. Perché, così si danno i colpi di legno? Quello ha detto ‘Vi conosco tutti’. Questo ci fa arrestare a tutti. Questi sbagli non si fanno. Perché non glieli devi dare tu (le botte) che lo conosci. Tu devi prendere a due che non li conosce. E poi queste cose non si fanno in mezzo alla strada”. Insomma, dissensi notevoli tra gli stessi sodali su come condurre le azioni criminose.
In quest’inchiesta sei sono state le estorsioni riscontrate dagli inquirenti e nessuna denuncia invece da parte delle vittime. Oltre le due consuete rate a Natale e Pasqua, in alcuni di questi casi si è registrata la richiesta di pizzo addirittura prima che si apra l’attività; un controllo, cioè, pressoché totale dell’economia locale. È in questa specifica attività vessatoria che si osserva la spietatezza del Suleman, che è “…intenzionato male con tutti. Che vogliono qualche bottiglia di benzina dentro ‘a putia?”. E devono pagare tutti “quello della parruccheria, del Caf… Allora, che m…ci stiamo a fare qua?”.
Due gli episodi di estorsione degni di essere raccontati. Il primo è una sorta di “messa in scena” dei boss, di “teatrino” che vede dapprima il Marano dire a un macellaio che alcune persone volevano parlare con lui e poi presentargli subito dopo il Lo Nardo che gli richiedeva “la messa a posto”. Un mascheramento, una recita, cioè, sul ruolo dei due che sono in realtà d’accordo nell’estorcere le somme all’esercente.
L’altro episodio riguarda un pescivendolo, che anche se mette sull’avviso il Suleman e il Marano che c’è un carabiniere che sta facendo delle riprese con il telefonino quando questi vanno a chiedergli i soldi, invece di essere ringraziato dai boss per l’avvertimento, riceve il rimprovero di non averli avvertiti in anticipo “Ci doveva dire a noialtri ‘andatevene che c’è questo della Carini (la caserma dei carabinieri)”. In realtà il monito nei confronti del commerciante era avvenuto sia perché lo stesso aveva resistito alla richiesta del pagamento di 500 euro, sia perché per non pagare aveva fatto dei nomi importanti che lo avrebbero protetto. Una resistenza e un affronto che i boss rampanti non potevano accettare.
Giovanni Burgio
2.4.24
Nessun commento:
Posta un commento