di Alessia Candito
«La barba di Vincenzo Agostino dovrebbe essere la barba di questo Paese, ma l’Italia non si rende neanche conto di averla».
Roberto Scarpinato, ex procuratore della Corte d’appello di Palermo, oggi senatore dei 5s, è l’unico che abbia dato a Vincenzo Agostino una ragione per tagliare la sua lunga barba bianca, che davanti alla tomba del figlio ha giurato di lasciar crescere. Un segno di protesta diventato un simbolo delle verità che per decenni sono mancate sulla morte del figlio, il poliziotto Nino Agostino, ucciso insieme alla moglie Ida Castelluccio il 5 agosto 1989. Solo grazie all’inchiesta testardamente voluta da Scarpinato, che l’ha riesumata e personalmente seguita, si è arrivati non solo all’individuazione dei responsabili e di chi su quell’omicidio ha taciuto, ma soprattutto al contesto in cui è maturato. Per l’assassinio del poliziotto alla sbarra sono finiti il boss Nino Madonia, già condannato all’ergastolo anche in appello, Gaetano Scotto, accusato come Madonia di essere il killer di Agostino e Francesco Paolo Rizzuto, all’epoca giovane amico della vittima, imputato di favoreggiamento. L’ex agente della Mobile Giovanni Aiello, che lo stesso Agostino ha identificato come “Faccia di mostro”, il killer dal volto deturpato che materialmente sparò al figlio, è morto prima che il processo iniziasse. Per tutti gli altri la sentenza potrebbe arrivare tra la fine di maggio e l’inizio di giugno. « Con l’indagine abbiamo toccato il fondale, purtroppo imperscrutabile, dei rapporti fra le mafie e lo Stato profondo di questo Paese».
Che contributo ha dato Vincenzo Agostino a quell’indagine?
«Una volta mi disse “le stragi di Capaci e via D’Amelio sono iniziate a casa mia”. È stata un’intuizione profonda a cui è arrivato con il cuore e che le nostre indagini hanno confermato»
In che misura?
«Indagando sull’omicidio Agostino siamo arrivati ai rapporti stabili tra alcuni uomini dei servizi e i Madonia del mandamento di Resuttana, famiglia potentissima specializzata in omicidi eccellenti come quelli di Chinnici e Dalla Chiesa, e coinvolta nell’attentato all’Addaura, che Giovani Falcone definì orchestrato da menti raffinatissime che orientavano l’azione della mafia.
Agostino si infiltra in questo mondo e scopre l’intreccio tra mafiosi e uomini infedeli delle istituzioni che quando scoprono il suo doppio gioco decidono di sopprimerlo con la moglie che conosce i segreti del marito».
Cosa lega l’omicidio Agostino alle stragi?
«Come nel caso di via D’Amelio è stato caratterizzato da depistaggi, opera dello stesso gruppo di poliziotti capeggiato da Arnaldo La Barbera, come ormai noto legato ai servizi. Per l’omicidio Agostino crearono una inesistente pista sentimentale, così come in seguito fu creata la falsa pista Scarantino per le indagini su via D’Amelio. Vennero distrutti i documenti che Agostino conservava, così come si fece sparire l’agenda rossa, e La Barbera tentò di convincere Scarantino a attribuirsi l’omicidio».
E con Capaci cosa ha a che fare?
«Davanti alla sua bara, Giovanni Falcone disse al commissario Montalbano “questo è un messaggio per me e te”. Agostino era entrato in un gioco enorme, che ha a che fare con le indagini che Falcone stava conducendo su una serie di omicidi istituzionali eccellenti: Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Piersanti Mattarella. In tutti questi casi, Cosa nostra ha prestato la manovalanza o la causale di copertura, ma non si è mai trattato di omicidi solo di mafia.
Cristiano Fioravanti, il fratello di Valerio, condannato per la strage di Bologna, ha dato elementi precisi sull’omicidio Mattarella prima di ritrattare».
Servizi, destra eversiva. Vincenzo Agostino era una persona semplice. Com’è arrivato a intuire tutto questo?
«Seguendo la linea retta del cuore e del sentimento ha capito che c’erano delle verità nascoste sulla morte del figlio, che dovrebbe essere figlio di tutto il Paese. Attraverso la sua battaglia ha costretto tutti a non chiudere gli occhi».
Ci è riuscito?
«Purtroppo la sensazione è che anche ad occhi aperti, ci si ostini a non vedere. In primo luogo perché la comunità è stata privata degli strumenti per farlo. Abbiamo assistito ad una sorta di infantilizzazione della storia della stagione delle stragi. Attribuire tutto solo a Totò Riina e ai suoi, elidendo il ruolo dello Stato profondo, dell’eversione nera, come il peso del contesto internazionale, è questo.
Ma la gente ricorda quello che le classi dominanti vogliono che ricordi».
Vincenzo Agostino è morto con la barba lunga. È un processo ancora in corso?
«Ognuno tragga le proprie conclusioni».
La Repubblica Palermo, 23/4/2024
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