DI SALVO PALAZZOLO
Giancarlo Romano è stato assassinato lunedì dopo una lite con i rivali sulle scommesse clandestine “Noi contro Stato e polizia. E preghiamo Dio”
PALERMO — Giancarlo Romano, il 37enne boss di corso dei Mille ucciso lunedì scorso, odiava i cronisti che avevano scritto dei baby pusher nel suo quartiere: «Stanno confondendo questa delinquenza con i nostri ideali… — diceva ai complici e non sospettava di essere intercettato — quando parlano sui giornali dei bambini che spacciano, discorsi che a noi non ci interessano, e mettono la parola mafia, gli serve per infangare quella parola, solo esclusivamente per quello». E ribadiva: «Perché io non permetterai mai che un bambino spacciasse droga, sarebbe contro i miei principi». È un vero e proprio manifesto criminale quello che Romano voleva lanciare dalla periferia orientale di Palermo, un tempo regno dei mafiosi delle stragi, i Graviano, i Lo Nigro, lì dove 31 anni fa venne assassinato il parroco Pino Puglisi.
Se lunedì non fosse stato ucciso, pure Romano sarebbe finito nel blitz disposto dalla procura diretta da Maurizio de Lucia. «Con gli ultimi nove arresti abbiamo fermato la riorganizzazione di un pericoloso clan», spiega il capo della squadra mobile Marco Basile, che ha condotto le indagini insieme ai colleghi della Sisco, la sezione investigativa del servizio centrale operativo. Ma le parole di Romano, intercettate dai carabinieri del nucleo Investigativo, sono molto di più che il racconto di un’indagine, rappresentano un allarme: Cosa nostra non si rassegna ad arresti e processi. Vuole non solo il bavaglio alla stampa, ma rivendica anche un proprio Dio e un’ideologia: «Noi abbiamo degli scopi, degli ideali che non dobbiamo fare morire mai… — diceva a gran voce Romano un sera di fine ottobre dell’anno scorso — e preghiamo il Signore che certe cose non finiscano mai… noi siamo contro lo Stato, contro la polizia ». Faceva una pausa e arringava ancora: «Il nostro è tutto un altro mondo, quello che vogliono fare loro è invece confondere la delinquenza con i nostri ideali, perché la delinquenza serve a portare l’opinione pubblica a favore loro».I padrini provano a rifarsi un’immagine, rilanciando l’impostura che Cosa nostra è tornata ad essere la mafia buona. Purtroppo, qualche risultato l’hanno già raggiunto: nella grande periferia si continua a pagare il pizzo, solo un imprenditore ha denunciato. È Giuseppe Piraino, che oggi dice: «È la terza denuncia che faccio, ma quanta amarezza. Perché sono sempre l’unico a farsi avanti? È davvero preoccupante il silenzio di questa città, forse altri imprenditori ritengono più conveniente pagare i boss per avere chissà quale protezione o altro servizio?». Romano puntava a fare proseliti: «Non è quello che ho vissuto che miha fatto diventare ciò che sono — ripeteva — perché ci sono nato. Pure se ero a Milano ero così». I complici ascoltavano. Il giovane boss sapeva appassionare il popolo di Cosa nostra, dopo l’omicidio i social sono pieni di post con sue foto e appassionate dediche: «Giancarlo hai seminato tanto bene». Lui diceva di ispirarsi al “Padrino”: «Questo film insegna tanto — diceva — il padrino non era il capo assoluto… lui era molto influente per il potere che si era cos truito a livello politico». Dalla fiction alla realtà. Ecco i progetti di Romano: «Siamo ridotti che tudevi campare con la panetta di fumo? Noi dobbiamo fare arrivare una nave piena di fumo». E invitava i suoi a immaginare altri “business”. Anche a costo di nuova violenza. «Quello che ho in testa non è prendermi a schiaffi con lo spacciatore, ma se è il caso fare una guerra tipo Saddam Hussein». Ecco le parole più inquietanti del manifesto criminale, che richiamano la necessità di un impegno culturale ancora profondo nella lotta alla mafia: «Io spero nel futuro in tutta Palermo — diceva il boss — spero nei più giovani».
La Repubblica, 4/3/2024
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