Il politico. Pietro Belvedere |
Storia dell’esperienza di una giunta senza la Dc, nel 1965, durata poche ore Il tempo di istituire una commissione d’inchiesta sui lavori pubblici
di Maurizio Padovano
Si può avere l’ambizione, o la follia, di amministrare una città senza averne sognato il futuro? Senza contrapporre ciò che è a ciò che vorremmo la città fosse?
Ci ha provato a Bagheria, il 19 febbraio 1965, il dottor Pietro Belvedere, sindaco per una sola notte e promotore di un esperimento politico temerario. Si veniva fuori dai tormentati anni Cinquanta, nel corso dei quali un blocco di potere magmatico e protervo aveva imposto un modello di sviluppo improntato al più miope laissez faire. All’inizio degli anni Sessanta — dopo l’avventura del milazzismo, la parentesi tragica del governo Tambroni e il primo centro sinistra “organico” nazionale — spiravano venti di cambiamento che forse un cattolico impegnato in politica fin dalla più giovane età, democristiano, presentatosi al voto con una lista civica recante il simbolo del Campanile, poteva sopravvalutare.
Andò davvero così? Di fatto Belvedere si ritrovò a capo di una giunta costituita da esponenti di tutti i partiti presenti in consiglio comunale, che relegò la Dc all’opposizione, portando per la prima volta i comunisti al governo.
Una foto d’epoca di corso Butera a Bagheria |
La maggioranza fu risicata (20 su 40 consiglieri) e gli equilibri così precari che quel governo durò poche ore: durante le quali però si fece in tempo a istituire una Commissione d’inchiesta consiliare sui lavori pubblici che è il primo profilo apprezzabile della contraddittoria, spesso deprecabile, storia urbanistica e politica della città.
Tutto ciò è raccontato nel volume Il discorso del sindaco ( Quaderni Bagheresi, 12 euro, a cura di Antonio Belvedere, postfazione di Giuseppe Tornatore) del quale colpiscono — oltre alla documentata e intelligente ricostruzione dei fatti — il tono, le strategie retoriche, i temi del discorso eponimo. Discorso di un moralista che — con buona pace di chi ama fraintendere questa parola — si lascia guidare da un un sano principio di realtà (tutt’altra cosa dal cinismo della realpolitik spesso invocata come misura aurea dell’azione politica): nessuna illusione ideologica sulla giunta che mette insieme cattolici laici e marxisti.
Ciò che spinge Belvedere a praticare tale soluzione non sono tanto le affinità ideologiche quanto la “necessità amministrativa”, la concretezza che l’intelligenza deve sposare quando si pone il problema di rendere migliore il posto in cui si vive. Bagheria era già allora ridotta a un caos pullulante di cemento, priva di servizi essenziali e oggetto di studio per gli studenti di Ingegneria della Università di Palermo «quale tipico errore per moderni piani di lottizzazione». Il sindaco conosce troppo bene la sua città per non capire che con quelle dichiarazioni si sta mettendo contro un intero sistema economico-clientelare- mafioso. Sa che la sua maggioranza è risicatissima, e si adopera perché quell’unica notte di governo lasci alla città almeno un frutto non avvelenato: la commissione che indagherà sui lavori pubblici che troppo spesso erano stati la testa di ponte della speculazione edilizia.
Nottetempo l’unico assessore Dc della giunta si dimette e Belvedere è costretto a rimettere il proprio mandato. Finisce così, durata quanto un sogno, l’avventura del sindaco che legge e immagina — come fossero un’unica pagina — passato, presente e futuro della propria città. Di quella lettura rimane intatta la lucida disamina della storia cittadina, la visione globale dei suoi problemi, il coraggio di guardare la realtà in faccia senza far sconti a nessuno. Il discorso di un uomo che, pur in una sorta di lucido scoramento, nutre enorme fiducia nella possibilità di una città ben ordinata e bella, nella quale nessuno di noi, venuti dopo, ha potuto vivere: l’immagine dell’utopia realizzata che Bagheria avrebbe potuto essere e non sarà. Utopia che — è cristiano sincero, Belvedere — sarebbe stata un’occasione unica di «redenzione materiale, morale, civile».
La Repubblica Palermo, 24 marzo 2024
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