di Lucio Caracciolo
cartografia e schede di Laura Canali
LA PENISOLA PROSPERA SE IL MEDITERRANEO È LIBERO E APERTO. SOFFOCA, SE DIVENTA TEATRO DI SCONTRI. IL CONFLITTO IN UCRAINA E LA GUERRA TRA ISRAELE E HAMAS IMPONGONO L’URGENZA DI UNA STRATEGIA NAZIONALE
Sono passati quasi sei milioni di anni da quando per cause naturali il Mar Mediterraneo virò in lago salato, con vaste zone aride e conche asciutte ben sotto il livello degli oceani. Alcuni geologi pronosticano che in un futuro altrettanto lontano un nuovo disseccamento riporti il nostro bacino al sinistro aspetto di allora. Temiamo di non poterne essere testimoni. Siamo invece abbastanza convinti che a fattori geofisici costanti il Mediterraneo rischi di scadere a laguna geopolitica per la carente prospettiva e manutenzione strategica di chi vi si affaccia. Questa meravigliosa placenta non è per sempre.
L’Italia è quasi isola esposta per ottomila chilometri al mare da cui importiamo le materie prime che non abbiamo e con cui esportiamo le merci che sostengono la nostra economia. La Penisola prospera finché il Mediterraneo è libero e aperto, soffoca se scolora in campo di competizione o peggio di battaglia fra potenze avverse. In questo tempo di Guerra Grande diffusa fra Europa, Africa e Asia, continenti tutti afferenti al Mediterraneo, la seconda ipotesi è vicina a compiersi, pur se noi stoicamente ci sforziamo di non vederla. Per una ragione generale e una specifica.
I popoli marittimi navigano il mare e curano di poterlo fare liberamente, se necessario con la forza. Noi ci tuffiamo nelle acque domestiche preoccupati che siano pulite e tranquille. Fra navigatori e spiaggiaioli c’è letteralmente un abisso. Quello che passa fra chi usa le onde e chi le subisce. Fra chi è consapevole che il “bagnasciuga” di mussoliniana memoria ci connette all’Oceano Mondo e chi ferma lo sguardo alla prima boa.
Poi accade che gli Houti, fino a ieri semisconosciuta ma armatissima fazione dell’Arabia meridionale più o meno legata all’Iran, ostacolino a suon di missili la navigazione nel Mar Rosso. Con il pretesto di difendere i palestinesi massacrati da Israele a Gaza, dalla costa occidentale dello Yemen – l’Arabia Felix dei nostri avi - costoro colpiscono selettivamente i navigli che via stretto di Bab al-Mandab puntano verso Suez. Sotto schiaffo, almeno teorico, anche portacontainer e petroliere italiane, con effetti per ora contenuti ma potenzialmente enormi: dal Mar Rosso passano i due terzi delle nostre importazioni e un terzo delle esportazioni, per circa 150 miliardi di euro l’anno.
Allarme mediatico generale. Ci si chiude lo sbocco all’oceano, si torna al periplo dell’Africa via Capo di Buona Speranza: otto giorni di navigazione in più per chi va e viene fra Italia ed Estremo Oriente.
Segue riflesso delle cannoniere: britannici e americani promuovono una selezione di occidentali, tra cui noi, pensando di regolare la partita inviando qualche nave a impaurire gli Houti, non impressionati.
Riscopriamo così quel che una volta si imparava dalle carte geografiche appese alle scrostate pareti delle classi elementari: siamo quasi isola nel quasi lago che è il Mediterraneo. Privi di accesso diretto all’Oceano Mondo. Le chiavi del fu
sono in mani altrui. Alcune benevole, altre avverse, tutte abituate a trattarci da non soggetto. Capita se non ti occupi di custodire la condizione della tua sicurezza e del tuo benessere, insomma della tua vita: la libertà di trascorrere da e verso quegli immensi nastri trasportatori dell’economia mondiale che sono le rotte oceaniche. Da cui transita il 95% delle merci e il 98% del traffico Internet.
Se poi ristudiassimo con la geografia anche la storia, scopriremmo come già l’antica Roma, conquistato l’Egitto e stabilito uno scalo ad Arsinoe (o Cleopatra), presso l’odierna Suez, vi facesse base per i commerci di spezie e seta con l’India. E per completare il controllo di entrambe le sponde del Mar Rosso, nel 25 avanti Cristo Augusto ordinò al prefetto d’Egitto Gaio Elio Gallo di conquistare l’area attorno all’odierna Aden, con esiti molto provvisori. Ma il concetto del Medioceano, cifra dell’estroflessione della Penisola, era fissato ante litteram alle origini dell’impero.
Il monito di Richelieu
Per riscoprire la nostra marittimità e adeguarla alla “terza guerra mondiale a pezzi” evocata da papa Francesco, vanno definiti tre punti fermi.
Primo. Quel che noi chiamiamo Mediterraneo è evoluto in Medioceano. Su scala globale, canale fra Atlantico, oceano canonico della nostra alleanza, e Indo-Pacifico, teatro della competizione sino-americana per il primato planetario. Appena l’1% dell’Oceano Mondo, per il quale tuttavia passano oltre un quarto del commercio internazionale e tre quarti dell’energia diretta in Europa, più snodi strategici dei cavi sottomarini della Rete, gasdotti e oleodotti.
Tutto cominciò nel 1869, con l’inaugurazione del Canale di Suez, opera già sognata dai veneziani nel Cinquecento e realizzata anche grazie all’iniziativa del triestino Pasquale Revoltella. Il nostro quasi lago apriva così sul Mar Rosso e di qui sfociava nell’Oceano Indiano. Formidabile opportunità di sviluppo dei traffici e delle comunicazioni. L’Italia si collocava al cuore di un sistema oceanico globale che verteva per noi sulla rotta Gibilterra-Stretto di Sicilia-Suez-Bab al-Mandab e di qui verso i mercati dell’Estremo Oriente. Salvo scoprire di non avere testa né muscoli per sfruttare tanta rendita, da incrociare con quella strettamente mediterranea che ci designa piattaforma logistica centrale fra Europa e Africa.
Secondo. L’Italia è l’unica grande nazione europea dell’Alleanza Atlantica a non affacciare sull’Atlantico. Furono Stati Uniti e soprattutto Francia a volerci nel 1949 fra i soci fondatori della Nato, mentre buona parte della classe dirigente nostrana – comunisti, socialisti, neofascisti ma anche molti democristiani, avanguardie vaticane – optava per la neutralità. Washington e Parigi, a differenza di Londra, ci vedevano infatti nella duplice chiave medioceanica (est-ovest) e mediterranea (nord-sud). Per gli Stati Uniti della guerra fredda era necessario impedire con tutti i mezzi – anche militari, se le sinistre filosovietiche avessero preso il potere – che lo Stretto di Sicilia e la sua penisola di riferimento finissero sotto Stalin.
Conviene citare il memorandum datato 2 marzo 1949 con cui il Dipartimento di Stato convinse il presidente Truman ad ammetterci nel Patto di Washington, perché suona di qualche attualità: “Nel caso di guerra terrestre in Europa occidentale, l’Italia è strategicamente importante. Quanto alla guerra marittima, non c’è dubbio circa la sua potenzialità strategica per il controllo del Mediterraneo. È di grande importanza negare al nemico l’uso dell’Italia come base per il dominio marittimo e aereo del Mediterraneo”. Uno sguardo alle basi americane e atlantiche in Italia, quasi tutte collocate in prossimità del mare – specie in Sicilia e nel Nord-Est – ci conferma che quel precetto resta cogente.
Per la Francia, paese insieme atlantico e mediterraneo, eravamo a un tempo profondità strategica utile all’Esagono per assorbire il primo impatto di un attacco dall’Urss, ma soprattutto passerella verso l’Algeria, allora territorio metropolitano, e il proprio impero africano.
Terzo. Da di versi anni, il mare che bagna l’Italia viene spartito fra gli Stati litoranei come fosse terra. In particolare, le Zone economiche esclusive (Zee) sono di fatto estensione di un grado di sovranità non solo simbolica dalla terra al mare, perciò protette dalle rispettive Marine militari. Non solo aree privilegiate di sfruttamento delle risorse marittime. Due casi eminenti: la Turchia sbarcata e insediata a Tripoli anche per vendicare la disfatta subita dall’Italietta di Giolitti nel 1911 ne approfitta per estendere le sue pretese acquatiche dalla costa anatolica a quella libica, giusta la dottrina della Patria Blu. L’Algeria, che nei nostri piani deve surrogare la carenza di gas russo, considera parte del Mar di Sardegna propria area di influenza. Chi frequenta le dune di Oristano può godere dello spettacolo di sottomarini algerini di fabbricazione russa classe Kilo versione 636, dotati di missili Kalibr, in pattugliamento a ridosso delle rive sarde.
Postilla: siamo l’unico attore – osservatore? – medioceanico/mediterraneo a non avere ancora disegnato la propria Zee. Il parlamento ha varato il 14 giugno 2021 una legge che ci autorizza ad affermarla. Siamo la patria del diritto, dunque ci basta. Anche perché disegnarla e imporla significherebbe contestare Zone economiche esclusive altrui. Siamo troppo beneducati anche solo per concepirlo. Si sa che fine fanno i gentiluomini in un mare di più o meno legittimi pirati. Due anni fa Limes ha pubblicato la mappa di una possibile Zee nostrana. Silenzio delle tecnocrazie deputate, scontato il mutismo della politica. Quanto tempo dovremo attendere prima di partecipare a una partita decisiva per il nostro Paese, giocata finora solo dai nostri vicini?
L’incrocio fra guerra in Ucraina, che verte anche sul controllo del Mar Nero, e conflitto Israele-Hamas esteso a gran parte dell’Oriente vicino, con riflessi immediati su Medioceano orientale e Mar Rosso, rivela l’urgenza di una strategia marittima nazionale. Non retorica: pensiero applicato. La posta in gioco è vitale. Speriamo di non dover riconfermare un giorno il monito del cardinale di Richelieu (1585-1642): «Le lacrime dei nostri sovrani hanno il gusto salato del mare che vollero ignorare».
La gabbia mediterranea
Il nostro esistenziale collegamento all’Oceano Mondo implica sicurezza nei mari di casa – Adriatico, Ionio, Tirreno – e libertà di navigazione attraverso i colli di bottiglia. Gibilterra pare fuori pericolo, anche se da Teheran si levano stravaganti minacce alle Colonne d’Ercole. La crisi si concentra quindi sullo Stretto di Sicilia e sulla combinazione Suez-Bab al-Mandab, passatoi del Mar Rosso. Quanto ai Dardanelli, che separano il Mar Nero dal resto del Mediterraneo, sono meno rilevanti per noi, a meno che la guerra russo-ucraina non vi degeneri. Resta il fatto che il Mediterraneo orientale a ridosso di Israele, il Mar Nero e il Mar Rosso sono inibiti al nostro traffico mercantile, a meno di correre rischi che pochi sono disposti ad accettare.
L’Italia è alle prese con tre potenze revisioniste: Russia e Cina, rivali massimi dell’America, più Turchia neottomana e islamista di Erdogan, che usa la Nato ma non intende esserne usata. Tre strategie autonome, differenti, ma convergenti nell’agitare le acque da cui dipendiamo.
Anzitutto il fronte caldo, quello russo. C’era una volta il Medioceano sovietico, dove la Quinta Squadra schierava decine di navi contro la Sesta Flotta Usa e le altre Marine atlantiche. Durante la guerra fredda Mosca aveva steso una ragnatela navale dall’Albania (dove fino al 1961 contava sullo scalo di Valona, dirimpetto a Otranto) fino a Sfax e Biserta in Tunisia, passando per i porti libici di Tobruk e Tripoli, mentre nel Mar Rosso si installava a Hudeida, Yemen. Dal 2007 la Russia ha deciso di opporre all’espansione terrestre e marittima della Nato verso Nord-Est una sua controdirettrice Sud-Ovest di penetrazione verso gli approdi già sovietici in Nord Africa e lungo ambo le coste del Mar Rosso. Di qui spingendosi fino al Sahel e oltre, profittando del collasso della Francia africana, della debolezza degli altri europei – italiani inclusi - e dello scarso interesse americano per il Continente Nero. Dove esibisce un suo peculiare soft power, misto di terzomondismo comunista riciclato e tradizionalismo anti-occidentale esaltato dal trittico Dio-Patria-Famiglia. L’aggiramento da Sud della Nato è un capolavoro tattico. Malgrado le limitate risorse a disposizione, Mosca si sta spingendo in profondità nelle acque e nelle terre prossime alle coste meridionali e orientali della Penisola. Non solo Wagner.
Il ritorno della Russia nelle acque di nostro diretto interesse è scattato con il rafforzamento della base siriana di Tartus, grazie all’intervento pro-Assad. Di qui, prua a Sud-Ovest, verso la Cirenaica già infiltrata dai wagneriani, ormai nazionalizzati. Obiettivo impadronirsi di uno scalo nell’area, d’intesa con il volubile capoclan locale, “generale” Haftar. Con preferenza per Tobruk, mentre a Derna spuntano i cinesi. Non basta: Putin conta sull’Egitto di al-Sisi, guardiano di Suez, per alcune intese sottobanco (di più il dittatore egiziano non può, a meno di rompere con gli americani). Mentre a Berbera, nel Somaliland, dove le acque dell’Indiano si apprestano a mescolarsi con le onde del Mar Rosso, i russi sembrano anticipati dagli etiopici. Nell’area del Mar Rosso Mosca si interessa anche all’Eritrea già italiana, con occhio su Massaua. Risalendo, interviene nella mischia sudanese, dove infuriano simultaneamente tre teatri di guerra civile. Paradosso (apparente): qui militari russi si scontrano con esigue avanguardie ucraine, prolungamento africano dello scontro che infiamma le rispettive frontiere europee. Un recente video del Kyiv Post mostra un ufficiale del Gruppo Timur, afferente alle forze speciali ucraine, interrogare un soldato russo del Gruppo Wagner in pieno deserto sudanese.
Infine, non per importanza, Mosca conta su solidi rapporti con Algeri. Forze armate e intelligence algerina coltivano da molto tempo speciali relazioni con gli apparati moscoviti. Vale anche per la Marina, generosamente armata dai russi ma dotata anche di un’ammiraglia d’origine italiana: una grande nave da sbarco, evoluzione della classe San Giusto. Presa per minacciare il Marocco, buona anche per visitare la Sardegna.
Di tutt’altro profilo è l’avanzata della Cina nel Medioceano. Se Mosca muove da guastatrice, Pechino cura di offrirsi “paritario” partner economico. Meccanica geopolitica fine mirata a subentrare ovunque possibile agli Stati Uniti in ritirata. Secondo uno schema che procede dall’economico allo strategico: prima le infrastrutture, con largo impiego di manodopera cinese, che necessita di protezione, ovvero intelligence, polizia speciale, fino a schierare militari in relative basi. Ufficialmente Pechino ne ha all’estero solamente una, guarda caso a Gibuti, presso Bab al-Mandab, accanto a quella (più piccola) americana e a molte altre, italiana inclusa. Installazioni pechinesi sono in costruzione lungo la via della seta marittima che corre tra i porti della Cina lungo l’intero Indo-Pacifico, con evidenti ambizioni panoceaniche.
Decine di miliardi di dollari sono stati investiti in infrastrutture energetiche, portuali e di trasporto in Egitto, specie nella zona del Canale di Suez. Il parziale successo di questo approccio, malgrado le difficoltà strutturali che vessano la Repubblica Popolare, si palesa in questi mesi di crisi nel Mar Rosso. Le autorità di Pechino hanno raccomandato ai loro mercantili di segnalare che l’equipaggio a bordo è interamente cinese. Per gli Houti vale quasi sempre da lasciapassare.
Intanto la pechinese Cosco, massima azienda di shipping al mondo, affiancata da gemelle non troppo minori, continua a investire in porti mediorientali, africani ed europei. Speciale attenzione è stata rivolta all’Italia, sancita con la clamorosa adesione del nostro Paese alle vie della seta, nel 2019. Ma dopo aver fallito lo sbarco a Taranto e a Trieste, consolandosi con scali relativamente minori quale Vado-Savona, la Cina ha subìto il voltafaccia italiano. Su pressione americana, nel dicembre scorso il governo Meloni ha abbandonato l’accordo con Pechino, senza che per questo Xi Jinping abbia perso di vista lo Stivale.
Quanto alla Turchia, avremo molto a che farci nei prossimi decenni. Come Pechino intende mettere in sicurezza i mari di casa, così Ankara, meno brutalmente ma con ammirevole metodicità, si sta installando nelle terre affacciate sulle acque che bagnano lo Stivale tra Adriatico, Ionio e Stretto di Sicilia anche grazie all’acquisto di terminal a Trieste e a Taranto. Frammenti di Patria Blu. Finita l’epoca triste del ridotto anatolico.
Il ritorno a Tripoli significa poi un’ipoteca sulla rotta migratoria centrale verso l’Europa via Italia, dopo quella imposta su quella orientale, verso Grecia e Balcani. Il tutto imperniato sulla ostentata presenza nel Mediterraneo orientale, per riportare un (lontano) giorno a casa l’intera Cipro e le isole dell’Egeo perse con il crollo del sultanato ottomano. Dal Golfo di Trieste diramando a ovest verso lo Stretto di Sicilia e a est in direzione di Creta e Dodecaneso, i turchi disegnano una sorta di - speriamo ad Ankara non si alterino per il prestito dal greco – che si sovrappone alle aree per noi più critiche del mare di casa, coinvolgendo golfi, canali e stretti decisivi, da Trieste a Otranto, dalla Sicilia verso i Dardanelli e Suez. I nostri strateghi hanno individuato nell’undicesima lettera dell’alfabeto ellenico, consonante liquida, la cifra della necessaria collaborazione con il più estroverso fra gli alleati atlantici. Purché l’eccesso di attivismo neo-ottomano, ad esempio nei Balcani
adriatici, non produca scintille.
Bassa marea geopolitica
Qualsiasi strategia marittima impone di guardare la terra dal mare, non viceversa come noi tendiamo a fare, fermandoci al primo orizzonte. Perché quello è lo sguardo di chi ci guarda da fuori e immediatamente coglie la marittimità inespressa dell’Italia. E perché per tenere la barra dritta serve integrare il punto di vista proprio con l’altrui. Il Belpaese parrebbe altrimenti avviato alla dolce fine di Narciso: troppo innamorato di sé stesso, lo sguardo all’ombelico, finirebbe per cadere e morire inghiottito nel Lago Mediterraneo semichiuso all’Oceano Mondo e percorso da squali. Predatori perfetti.
Studiandoci da fuori ci metteremmo fra l’altro in posizione parallela a quella degli Stati Uniti, nostro garante di prima e ultima istanza. Almeno fino a ieri: non sappiamo quanto oggi. Ma domani, soprattutto dopodomani? Dalla risposta deriva la nostra strategia. L’impressione è che quanto più il mare che fu nostro si ridurrà a laguna salmastra sconnessa dalle principali rotte oceaniche, tanto meno interesserà gli americani e tanto più sarà esposto alle scorribande di nemici o aggressivi competitori.
Processo destinato ad accelerare con la fusione dei ghiacci artici. Nel giro di pochi decenni nascerà probabilmente nel Grande Nord una ricca rotta commerciale fra Estremo Oriente, Russia, Europa settentrionale e Nord America, più rapida e meno costosa della via medioceanica. La Russia di Putin ne ha fatto l’emblema della propria rimonta nelle gerarchie mondiali, mentre la Cina si proclama potenza artica e gli Stati Uniti si organizzano con canadesi, britannici e nordeuropei per impedire che la futura massima linea di comunicazione transoceanica cada in mani avverse.
Mentre nei bar nostrani si scommette sulla vittoria di Joe Biden o Donald Trump (o chi per loro) alle elezioni di novembre, sfugge che il trionfo dell’uno o dell’altro inciderà solo su stile, misura e velocità di una riconversione strategica ormai palese. “Retrenchment” è il suo nome negli apparati a stelle e strisce, traducibile come “ridimensionamento”. Non “isolazionismo”, inteso come rinuncia al primato mondiale per curare il giardino di casa – assurdità che produrrebbe la perdita di entrambi. Nella versione più raffinata, dovuta alla penna di Stephen Wertheim (Foreign Affairs
del 14 febbraio), significa “disincagliare gli Stati Uniti dal Medio Oriente, affidare gran parte della difesa europea agli alleati europei e lavorare per stabilire una coesistenza competitiva con la Cina”. Tradotto: meno impegno americano nel nostro spazio euromediterraneo, quindi più responsabilità italiana, da condividere anzitutto con i partner euroccidentali (Euroquad Italia-Francia-Spagna-Germania). Per quanto possibile anche con la Turchia della Patria
Blu. E approfondendo con Washington, su base anche bilaterale, lo scambio fra quel che resta dell’ombrello nucleare con il nostro impegno in aree per noi rilevanti evacuate dagli americani per evitare che finiscano in mani avverse.
Giusto un anno fa, un’eccezionale bassa marea di origine sigiziale colpì le coste dello Stivale. L’acqua si ritirò dai porti di Napoli e Bari, i canali di Venezia finirono in secca naturale. Ci sono voluti due millenni perché il mare di Roma da Mediterraneo diventasse Medioceano. Tronco basilare dell’Italia. Non ci perdoneremmo se la bassa marea mossa dalla nostra incoscienza ci scoprisse presto in secca strategica.
La Repubblica, 18 febbraio 2024
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