di Salvo Palazzolo
In un libro la versione del pm nel processo chiuso con assoluzioni. “Quella sentenza ha ignorato i fatti”
«Poche pagine pretendono di smontare la valenza probatoria di fatti emersi in anni e anni di lavoro» . E ancora: «Con un vero colpo di spugna la Cassazione ha spazzato via tutto, anche fatti che in realtà neppure ha considerato, preferendo semplicemente ignorarli». Il pubblico ministero Nino Di Matteo non usa mezzi termini nei confronti della sentenza della Suprema Corte che il 27 aprile dell’anno scorso ha spazzato via definitivamente le accuse nel processo “
Trattativa Stato- mafia”. I giudici hanno assolto gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno «per non avere commesso il fatto» . È stato assolto anche l’ex senatore forzista Marcello Dell’Utri.
«Forse doveva andare così», scrive Di Matteo, oggi sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, nel libro “Il colpo di spugna. Trattativa Stato- mafia: il processo che non si doveva fare”, scritto con il giornalista Saverio Lodato (edizioni Fuori Scena). «Non solo gli imputati istituzionali (Mori, Subranni, De Donno e Dell’Utri) ma le istituzioni tutte dovevano sgombrare il campo da nubi così nere. Non potevano consentire che in una sentenza definitiva (per quanto assolutoria) venissero consacrati, nero su bianco, rapporti di dialogo e scambio con il nemico dichiarato. Molto meglio, molto più rassicurante per il Paese, ricondurre a mere congetture fatti e rapporti così scabrosi».
I giudici della Cassazione hanno accolto in pieno la tesi della difesa degli ex ufficiali del Ros, che hanno sempre parlato di «un’operazione di polizia» a proposito del dialogo segreto con l’ex sindaco Vito Ciancimino.
Scrive Di Matteo: «La Cassazione finisce per ricondurre l’operazione Ciancimino a una normale e legittima attività di polizia giudiziaria. Vengono però sistematicamente e totalmente ignorati fatti indiscutibili che dimostrano il contrario. Ne cito alcuni: gli ufficiali del Ros non documentarono, mentre si svolgevano, in alcun modo (neppure con una semplice relazione di servizio da conservare agli atti riservati del loro ufficio) le interlocuzioni che avevano con Ciancimino». E ancora: «Mentre il dialogo con l’ex sindaco mafioso agli arresti domiciliari si sviluppava proficuamente in almeno cinque occasioni di incontro, gli ufficiali del Ros non fornirono alcuna informazione, né alla magistratura né alla loro scala gerarchica. E questo quando invece, al diverso livello politico, informavano il sottosegretario alla Giustizia Ferraro e il presidente della commissione Antimafia Violante».
Un altro passaggio: «Gli ufficiali imputati non posero al loro interlocutore alcuna domanda su Bernardo Provenzano e sulla sua latitanza, pur essendo perfettamente consapevoli degli antichi e consolidati rapporti personali tra Vito Ciancimino e il boss corleonese. Evidentemente in quel momento non avevano alcun interesse a rintracciare Provenzano, che da più di venticinque anni si sottraeva all’arresto» . Considerazione finale di Nino Di Matteo: «Si tratta di condotte del tutto estranee agli obblighi, alla cultura investigativa e giuridica della polizia giudiziaria, e la Cassazione ha del tutto ignorato questo dato».
Giudizi pesanti. Ma il magistrato simbolo dell’inchiesta sulla “Trattativa Stato-mafia” rivendica il diritto a dire la sua: «Le sentenze — scrive — anche quelle della Suprema Corte, si devono rispettare ma si possono criticare». Ecco la critica di Nino Di Matteo: «La sentenza della Cassazione pretende di riscrivere i fatti, anziché limitarsi al controllo di legittimità della sentenza impugnata, e rischia di costituire per il futuro un pesante e pericoloso monito per quei magistrati che saranno chiamati a indagare e giudicare fatti e delitti che non possono essere compiutamente accertati».
La Repubblica Palermo, 13/2/2024
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