sabato, febbraio 17, 2024

Crollo nel cantiere di Firenze: chi ha tradito il lavoro


di Massimo Giannini

La prima a tradire è l’impresa, la seconda la politica

La vita bastarda se n’è presa altri tre, che salvo miracoli diventeranno cinque. Anche il loro filo si è rotto, come quello dei 1.200 che se ne sono andati in quest’ultimo anno. E anche di questi poveri cristi — passato il cordoglio, esaurito lo sdegno, sbollita la rabbia — resterà solo un’immagine incorniciata in salotto. Come hanno cantato inutilmente Massini e Jannacci a Sanremo: “un lampo mi portò via/ e di me non resta che una fotografia”. Con i morti di Firenze, sepolti sotto le macerie di un cantiere Esselunga, malediciamo davvero il lavoro che porta sottoterra, e l’operaio che muore come in guerra. E insieme celebriamo le esequie della grande ipocrisia.

Di fronte a una strage infinita, il rito è ormai sempre lo stesso. Quando la tragedia si fa collettiva, quando crepano in tanti, bruciati vivi in un’acciaieria o travolti da un treno, allora si svegliano i telegiornali, si mobilitano i sindacati e si crucciano i partiti.


C’è sempre questo “cuore d’Italia” che, da Palermo ad Aosta, si leva in un coro di vibrante protesta (come cantava De André, stavolta). Ma è un cuore peloso. Dei morti sul lavoro non frega niente a nessuno. Li piangono le famiglie, ora e per sempre. Ma per il resto sono solo un dolente comunicato del giorno. Una variante estemporanea del palinsesto tv.

Non sappiamo ancora granché sulle cause del crollo all’Ex Panificio Militare. Sappiamo che è crollata una trave di cemento armato dal tetto. Sappiamo il nome di uno dei caduti, Luigi, della provincia di Teramo. Sappiamo che gli altri erano tutti stranieri: per lo più romeni, ma anche egiziani, indiani, come succede spesso quando c’è fatica, sudore, e spesso anche sangue.

Aspettiamo l’inchiesta della magistratura, come al solito. E come al solito sentiamo il segretario della Fiom attaccare l’azienda appaltante perché aveva subito già un altro incidente a Genova, perché pare che in quel sito operassero una trentina di micro-imprese in subappalto e perché gli uccisi e i feriti dal crollo erano lavoratori metalmeccanici e non edili (cioè assunti con un contratto meno oneroso).

Sarà tutto vero, sicuramente. Ma cambia qualcosa? È cambiato qualcosa nel Belpaese, in tutti questi anni di mattanza infinita nei quali muore un lavoratore ogni otto ore e mezza?

Chiedete cosa è cambiato ad Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rocco, Rosario, Giuseppe, martoriati dal fuoco della Thyssenkrupp in un maledetto turno di notte tra il 6 e il 7 dicembre 2007.

Poi chiedetelo anche a Marco, Bobo, Filippo, venuti giù da una gru a Torino devastata dai centomila ponteggi del bonus facciate, in un’alba dannata del 18 dicembre 2021.

E ancora, chiedetelo a Michael, Giò, Saverio, Peppe, Kevin, maciullati da un locomotore a Brandizzo, mentre manutenevano i binari in una sera nera del 31 agosto 2023.

O infine, chiedetelo alla povera Luana D’Orazio, 22 anni e mamma di un bimbo di 5, divorata dal suo orditoio a Prato il 3 maggio 2021, genitori risarciti con 166 mila euro, azienda multata con 10.300 euro, e amen.

Insomma, chiedete a tutte le anime che ora popolano l’immenso Cimitero dei Diritti, dove le abbiamo sepolte insieme alla dignità, alla civiltà, alla solidarietà.

E insieme alla Costituzione, soprattutto. Quella fondata proprio sul lavoro e sul lavoro dimenticata, offesa, tradita. L’unica istituzione credibile che lo può gridare è il Quirinale. Sergio Mattarella lo ripete da anni: morire sul lavoro è un oltraggio alla nostra convivenza. L’ha detto il Primo Maggio: «La sicurezza non è un costo, è un dovere… Dobbiamo combattere questo flagello, e non stiamo facendo abbastanza».

L’ha ribadito il 13 settembre, in una lettera alla ministra Calderone: «Le morti sul lavoro feriscono il nostro animo, le persone nel valore massimo dell’esistenza, la società nella sua interezza: da tutti voi dipende la vita di madri, padri, figli, lavoratrici e lavoratori che finito il proprio turno hanno il diritto di tornare alle loro famiglie».

L’ha ripetuto l’8 ottobre, nella Giornata Nazionale per le Vittime del Lavoro: «Morire in fabbrica, nei campi, è uno scandalo inaccettabile per un Paese civile, un fardello insopportabile per le nostre coscienze». Prediche inutili, quelle del Presidente della Repubblica. Appelli traditi, anche i suoi.

La prima a tradire è l’impresa. L’impresa grande, che svalorizza il lavoro, lo frammenta e lo sottopaga, considerandolo ormai una commodity, al pari di una materia prima o di una macchina utensile, sempre fungibile e sacrificabile sull’altare del profitto lucrato a qualunque prezzo e del ricavo ottenuto col ribasso di costo. E l’impresa piccola, che opera sotto la soglia minima delle gare pubbliche, nella zona grigia dell’affidamento privato, quella che sminuzza l’appalto e lo sparge tra tanti padroncini minori, in una terra incognita dove si trascurano le regole e si spartiscono le commesse, si risparmia sui costi e si trascura la sicurezza.

La seconda a tradire è la politica. Che mente e parla a vanvera. Anche stavolta, messaggi contriti da tutti, la Presidente del Consiglio, le destre e le sinistre. Ma a parte le chiacchiere, cos’hanno combinato di serio, per curare questa piaga che con pigro cinismo chiamiamo ancora “morti bianche”?

Sul nuovo Codice degli Appalti, Meloni e Salvini possono offendersi quanto vogliono per le accuse di Landini, ma è un fatto che i “Patrioti” al potere hanno voluto a ogni costo liberalizzare il sistema, alzando la soglia sotto la quale si può eseguire un’opera a trattativa privata, subappaltandone a piacere singole parti.

Sul sistema dei controlli gli organi di vigilanza denunciano da decenni una drammatica carenza di ispettori: la riforma Renzi del 2015 ha paralizzato il settore, istituendo un unico Ispettorato Nazionale del Lavoro che riunisce le competenze di Inps e Inail, deve vigilare su tutti i settori produttivi e non può assumere nuovi ispettori, ridotti ormai a poco più di 200 su tutto il territorio nazionale. Sugli indennizzi per le famiglie delle vittime del lavoro siamo al paradosso.

Il governo Prodi istituì meritoriamente un Fondo Nazionale nel 2007, che dal 2010 fu progressivamente rimpinguato fino ad arrivare al picco della capienza nel 2012, con 12,5 milioni stanziati dal governo Monti. Da allora solo tagli verticali e trasversali, solo 3 milioni tra governo Letta e governo Renzi.

Poi gli ultimi rifinanziamenti: 7,5 milioni con il governo Conte Bis nel 2021 e 9,8 milioni col governo Draghi nel 2022. Con la Sorella d’Italia erano tornate le forbici: a giugno 2023 fondo dimezzato a 5,5 milioni.

Poi, tra proteste esterne e pressioni interne alla coalizione, sono saltati fuori altri 5 milioni. Peccato che intanto è stato limato il tetto ai risarcimenti Inail (da 6 a 4 mila euro per i minimi e da 22.400 a 14.500 per i massimi) e abbattuto da 16 a 10 ore la formazione obbligatoria per le aziende più a rischio (dall’edilizia allo smaltimento rifiuti, dalla sanità alla lavorazione dei metalli).

Così deperisce il lavoro: strumento millenario di emancipazione di massa e di “classe”, diritto fondamentale che trasforma il singolo individuo nel cittadino della polis, cuore pulsante del Patto Costituzionale e Generazionale.

Così periscono i lavoratori: sfruttati dalle mosche del capitale, ingannati dalle maschere della politica. Dunque: sentite condoglianze e solenni promesse, commossi funerali e scioperi generali. E avanti così. Fino al prossimo lampo.


LA REPUBBLICA, 17 FEBBRAIO 2024

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