Danilo Maniscalco
Raramente questa città ha avuto amministra-tori pubblici all’altezza della sua gloriosa storia millenaria. A ricordarlo senza uso di metafora alcuna è già pochi giorni dopo il «fattaccio demolitivo» la penna furiosa di Etrio Fidora dalle pagine infuocate de L’Ora del 6 dicembre 1959, quando della villa progettata da Ernesto Basile rimangono solo e macerie: Ma fra il principe di Deliella – che in fin dei conti disponendo dei muri di casa sua – chiede all’assessore ai Lavori pubblici l’autorizzazione a demolire la villa, e l’assessore che gliela concede, chi è il maggior responsabile? Certo l’assessore che ha il dovere di tutelare comunque gli interessi della collettività di fronte a quelli del singolo.
La risposta di Ciancimino sembra uscita da un romanzo di Leonardo Sciascia: «Se il ministro ha tolto il vincolo – in seguito al ricorso di Franco Lanza per la mancata maturazione dei cinquanta anni del manufatto – non vedo il motivo per rifiutare la licenza». Licenza che nessuno, oltre la proprietà e l’impresa di demolizione, «avrebbe» mai visto e che infittisce il mistero legato al potentissimo politico democristiano nato a Corleone – Ciancimino – vero protagonista della vicenda infelice che Bruno Zevi definì dalle pagine de L’Espresso «Assalto a Villa Deliella» sottolineandone alla maniera di Antonio Cederna l’innovazione semantica «di un atto di nuovo banditismo». Delle due l’una, o l’autorizzazione non è mai esistita, oppure è «letteralmente» scomparsa dagli uffici pubblici deputati a tutela e controllo del territorio. Cosa sia più grave tra le due condizioni è materia di difficile risoluzione ma il plausibile ritrovamento – segnalato il 20 dicembre da queste pagine – del materiale di risulta dell’inutile demolizione della villa di proprietà del principe Franco Lanza, riapre una ferita lunga sessantaquattro anni che merita ulteriori indagini, così come auspicato dall’architetto Lelia Collura, fonte preziosa e attendibile rispetto a fatti di cui si è persa per decenni la memoria collettiva. C’è da sottolineare, così come è ancora Fidora a sostenere dalle stesse pagine, le responsabilità oggettive dell’allora sindaco Salvo Lima il quale disponeva della possibilità di annullare l’indirizzo fornito dal suo assessore in virtù della legge di salvaguardia (n. 1357 del 21 dicembre 1955), ma che non mosse un dito. Un atto rapido, privo di collegialità con Commissione Edilizia e urbanistica, Consiglio comunale e Soprintendenza, che sottolinea il passo suggerito ancora una volta da Zevi. Chiude ancora Fidora: «Troppe mancanze, troppe responsabilità. Di fronte a questo […] passa in secondo piano anche la decisione iconoclasta di un proprietario, decisione che sotto una retta amministrazione non avrebbe potuto avere corso, o addirittura non sarebbe stata neppure formulata».Adesso la palla passa alle autorità comunali, al Consiglio comunale, alla Commissione Urbanistica e alla Soprintendenza, per indagare rispetto a quei cumuli di detriti di chiara derivazione edile, affastellati da decenni all’interno di un polmone verde in uso alla collettività per attività sportive, ludiche e di relax quotidiane. È un dovere indagare e tempestivamente sui contenuti del materiale segnalato, stoccato impropriamente in almeno quattro macro-aree; è un diritto della cittadinanza avere rassicurazioni – ancor prima che sulla concreta possibilità che quelli siano i resti della villa icona del sacco – che non ci sia nulla di nocivo per la salute. La vicenda del surreale ritrovamento nel parco di Villa Trabia riaccende la speranza per la riqualificazione in forma di Museo del Liberty siciliano, nell’area della demolizione di piazza Crispi dove ancora esiste il piano ipogeo, la casa del custode e scampoli di cancellata in ferro battuto a motivi floreali. Tocca ancora segnalare che dal dicembre 2019, studiosi, progettisti e cittadini, attendano che la Regione dia seguito alla pubblicazione delle linee guida per strutturare il bando concorsuale per trasformare l’area in museo, così come promosso da Sebastiano Tusa, e così come da prescrizione vigente del piano regolatore generale che individua l’intera area – di proprietà privata – come F12 «area per attività espositive e museali».
Del resto come segnala Adriana Chirco presidente della sezione cittadina di Italia Nostra, all’interno del giardino dello Spasimo - attraverso il duro lavoro di ricerca di Giovanni Renna – sono riaffiorate «altre pietre» in forma di detriti apparenti usati in forma impropria; sono i resti della chiesa di Santa Maria di Piedigrotta, devastata dai bombardamenti angloamericani del 1943, oltre quattrocento elementi lapidei analizzati e studiati. Come sottolinea Iano Monaco presidente dell’Ordine degli Architetti di Palermo: l’assenza della villa dal 1959 ad oggi rappresenta il cambiamento di visione strategico di quella borghesia che passò dalla committenza di capolavori architettonici qualificanti lo spazio pubblico alle loro demolizioni in sfregio alla storia della bellezza; il tutto in un solo passaggio generazionale. Il ritrovamento dei resti della villa e la storia di quest’ennesimo tassello di degrado, sia il pretesto per riaprire il dibattito sulla riqualificazione dell’intera area della piazza, dove persino la statua di Crispi è stata inutilmente sfregiata dai vandali contemporanei. Non possiamo che attendere che alle nostre segnalazioni facciano seguito i necessari riscontri.
Danilo Maniscalco
GdS, 2 gennaio 2024
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