Padre Salvatore Lo Bue
Il fondatore della comunità di recupero di Bagheria ricostruisce il percorso iniziato nel 1983 come una sfida ai boss. Il crack a Ballarò. Ci fu assegnato un terreno confiscato a Messina Denaro: arrivò una busta con i proiettili e bruciarono il luogo degli incontri
di Mario Di Caro
La vera festa è stata celebrata per uno degli ospiti che ce l’ha fatta, dopo aver completato il percorso terapeutico. La Casa dei giovani di Bagheria, comunità di recupero per tossicodipendenti, ha tagliato a fine dicembre il traguardo dei quarant’anni di attività e il suo fondatore, padre Salvatore Lo Bue, 82 anni ben portati, fa ancora su e giù per le carceri della Sicilia a fare colloqui con detenuti tossicomani che hanno bisogno di aiuto: «La comunità può essere più rigida di un carcere — avverte — perché sei costretto a scavare dentro di te, a guardarti allo specchio, mentre in cella puoi anche stare a letto tutto il giorno».
«Negli anni Ottanta insegnavo Sociologia generale all’Università pontificia più varie materie complementari, stavo a Roma tre giorni alla settimana e poi scendevo in Sicilia per insegnare Psicologia sociale all’Università e nell’attuale Lumsa. Avevo messo su un consultorio per le tossicodipendenze all’Ospedale militare di Palermo, uno dei primissimi in Italia, e nel contempo alla Regione s’era attivata la Consulta per le tossicodipendenze, per cui mi sono avvicinato alle tematiche della droga. Inoltre avevo conosciuto a Roma don Mario Picchi, fondatore di una delle prime comunità terapeutiche in Italia, e frequentavo un centro di accoglienza: e così ho cominciato a incontrare i tossicodipendenti».Facciamo un salto indietro al 1983, quando è cominciato tutto: chi era padre Lo Bue prima della Casa dei giovani?
Altri tempi e altri giovani...
«Allora i tossicodipendenti erano i figli dei fiori, i ragazzi del Maggio francese, del’68, rimasti orfani dell’utopia della fantasia al potere: si sentivano sconfitti, i loro ideali, i loro sogni di cambiamento della società erano falliti. Giravano l’Europa, andavano in Oriente dove pensavano di attingere a una dimensione diversa, era una fuga dalla realtà e nel loro bagaglio avevano “Sulla strada” di Kerouac, Timothy Leary.
Pensavano che potesse realizzarsi la cosiddetta psicoanalisi chimica, tutto e subito, tutto magicamente. Ma in realtà erano uomini in fuga. Questo era il contesto».
E la Casa dei giovani come nasce?
«Questa mia esperienza fu attenzionata dal cardinale Pappalardo che mi chiamò e mi disse che gli sarebbe piaciuto se avessi messo a frutto le mie ricerche sulla tossicodipendenza. Allora le famiglie dei tossicodipendenti dovevano fare i viaggi della speranza perché fino all’83 in Sicilia non c’erano comunità di recupero. Bagheria era il centro del triangolo della morte, c’era stata la strage di Natale nell’81 nella quale morirono tre persone, era un contesto caldo: con Pappalardo ci siamo resi conto che una comunità di recupero non risolveva il problema ma dava un segno di riscatto.
Avevamo capito che la mafia vuole persone deboli, docili, senza spina dorsale. Dunque dovevamo dare un segnale, non tanto per togliere qualche cliente agli spacciatori ma per cercare di stimolare le persone a capire a chi serviva tutto questo: alla mafia che si arricchiva spremendo denaro dal dolore. Era nei confronti della mafia che dovevamo agire, dovevamo creare persone autonome, padrone di se stessse, forti. Non è un caso che nel 2000 siamo stati i primi a ottenere un terreno confiscato alla mafia, a Messina Denaro, in contrada Zangara, nel Trapanese».
E davanti a questo segno di riscatto la mafia non ha reagito?
«Lì a Castelvetrano avevano paura, in quel terreno volevano farci un canile, io ci ho portato i tossicodipendenti, quelli che avevano paura della vita e ho detto loro: questa ricchezza è stata fatta con il vostro sangue, ora è giusto che ve ne appropriate. Arrivarono buste con cartuccce di fucile, un foglio con tre croci, ci fu un incendio nel luogo dove facevamo gli incontri.
Ora il pericolo è diminuito, noi che siamo partiti da un contesto ad alta densità mafiosa come Bagheria siamo orgogliosi di aver dato questo input, di aver alzato la bandiera dell’autonomia nei confronti di chi si è arricchito sulla pelle dei tossicodipendenti».
Quanti ne avete strappati dal baratro della droga?
«Parecchie centinaia, ma le nostre sono piccole comunità. Bagheria ha al massimo venti persone, noi lavoriamo sulla qualità, con la terapia sulla famiglia: è difficile per un giovane tornare nel contesto familiare che ha lasciato perché a volte sono situazioni disastrose che portano all’angoscia. Abbiamo vissuto accanto a persone ossessionate dalla morte, abbiamo lavorato per farli innamorare della vita. Di questo possiamo essere contenti».
A Palermo, a Ballarò, i giovani trovano il crack per pochi euro.
«Oggi c’è il consumismo per il consumismo. Ogni giovane viene spinto a considerare la propria realtà psicofisica che deve dare il massimo possibile, quindi non riesce a trovare un ruolo nella società e allora fugge, cerca la soluzione nella morte: si corteggia la morte quando la paura della vita è più forte della paura della morte stessa. Questo è quello che lega i crackomani di oggi ai tossicodipendenti di ieri che avevano un’ideologia».
È allarme sui piccoli consumatori: oggi si inizia prima?
«Ce ne sono anche di più vecchi, di 34, 37 anni. Sì, ci sono giovani che cominciano col crack molto presto, ci sono quelli che fumano canne a 10 anni: nell’età dello sviluppo fumare anche marjuana ha un’influenza pesantissima sul cervello. Il crack invece li rende ingestibili, li fa diventare violenti, annulla l’autocontrollo. Abbiamo visto una ragazza picchiare il padre e la madre senza capire cosa aveva fatto: non se ne rendeva conto. Oggi le morti per droga sono di meno ma le morti cerebrali sono di più. Noi valutiamo anche il problema psichiatrico, il cervello bruciato».
La prevenzione non è sufficiente?
«Avremmo bisogno di educatori di strada: il camper è un’operazione valida. I Sert soffrono un’enorme diminuzione dell’organico, molti vanno in pensione e non vengono sostituiti, con il crack devono fronteggiare un’utenza di un migliaio di persone: dove lo trovano il tempo per fare i colloqui con i ragazzi?».
La Repubblica Palermo, 21/01/2024
Nessun commento:
Posta un commento