Quarant’anni fa la mafia uccideva il giornalista. Un volume illustrato ne racconta l’impegno. Pubblichiamo la prefazione scritta dalla nipote
di Francesca Andreozzi
Io mio nonno l’ho conosciuto, anche se abbiamo passato insieme solo pochi anni, alcuni dei quali non posso ricordare perché ero troppo piccola.
Ho continuato a conoscerlo dopo la sua morte grazie ai racconti di mia mamma, sua figlia, e di tutta la nostra famiglia. Ho sentito aneddoti, ricordi e storie raccontate da altri, alcuni professionali, altri personali; da questi ho ricostruito pezzi di conversazione utilizzando l’immaginazione e la fantasia.
Credo che immaginare conversazioni possibili con chi non c’è più sia una cosa abbastanza comune, sia un modo per affrontare una perdita, per rendere quella persona presente nella propria vita, anche se fisicamente non c’è più.
È stato strano leggere tra le pagine di questo libro le nostre conversazioni, molte delle quali mai avvenute ma spesso, spessissimo, immaginate. Quante volte avrei voluto raccontargli qualcosa di me, ma soprattutto avrei voluto fargli domande, ascoltare dalla sua voce, nelle sue risposte, la spiegazione di un mondo complicato, affascinante e allo stesso tempo spaventoso.
Tante cose non me le ha potute dire lui direttamente, ma le ha lasciate come una sorta di eredità. Ho conosciuto mio nonno grazie a mia madre e mio zio, che hanno raccontato a noi piccole nipoti, che nel frattempo diventavamo grandi, di lui, del suo lavoro, della sua genialità, ma soprattutto della sua umanità, fatta di allegria, ironia e voglia di vivere.
Tante risposte alle domande che avrei voluto fargli le ho trovate leggendolo: ho potuto conoscerlo meglio grazie a tutto il materiale che ha prodotto, e che la Fondazione Fava ha riordinato e catalogato ufficialmente in un archivio (oggi consultabile da chiunque voglia approfondire la conoscenza e lo studio di Giuseppe Fava e delle sue opere).
Ho letto le sue inchieste e i suoi racconti, osservato affascinata i suoi quadri e i suoi disegni, assistito alla messa in scena delle sue opere teatrali, sfogliato le sue foto. E questo mi ha aiutato a trovare una risposta ogni volta che mi sono chiesta “Chissà cosa direbbe di questa situazione”, “ Cosa farebbe lui?”, “ Cosa mi consiglierebbe di fare?”.
Tante volte da adolescente ho sentito mia madre raccontare del nonno a ragazze e ragazzi della mia età che non ne avevano mai sentito parlare di lui e poi, da più grande, l’ho ascoltata raccontare di suo padre a ragazze e ragazzi che quando lui è stato ucciso, nel 1984, non erano neanche nati. Anche questo è stato un modo per continuare a conoscerlo.
Da quando mia madre non c’è più continuo io. Ho dovuto trovare il mio modo di raccontare, perché i miei ricordi diretti sono pochi e certamente poco rilevanti per far conoscere la storia di mio nonno, forse servono per agganciare emotivamente chi mi ascolta: un evento accaduto quarant’anni fa per degli adolescenti è un fatto lontanissimo, da libro di storia, non li riguarda; ma se a raccontare questa storia è qualcuno che l’ha vissuta in qualche modo sulla propria pelle, allora diventa più reale, può assumere un altro valore.
Se dopo tanti anni continuiamo a raccontare di Giuseppe Fava, è perché conoscere la sua storia e il suo impegno ( quello che ha fatto in vita, non solo come e perché è stato ucciso) possa essere di ispirazione, stimolare ad aprire gli occhi e guardarsi intorno, iniziare a farsi delle domande, capire come funziona il mondo che ci circonda, imparare a riconoscere dove la mafia si insinua ma soprattutto assumere un atteggiamento attivo e un impegno concreto.
Ogni volta che mi trovo davanti a una platea di giovanissimi, mi chiedo se tra loro ci sia qualche futuro giornalista, che magari lo diventerà anche grazie al nostro incontro. La stessa domanda vale per chi potrebbe diventare scrittore, drammaturgo, pittore ecc., visto che Giuseppe Fava è stato un intellettuale a 360°. In realtà non si tratta del tipo di lavoro, ma del modo in cui lo si fa, con passione e coerenza, senza scendere a compromessi e con la schiena dritta.
Ripensandoci, non si tratta neanche di una professione, è uno stimolo a riflettere sull’impegno che possiamo metterci come cittadini, sul contributo che ognuno di noi può dare per costruire una società libera dalla mafia, dalla corruzione, dall’ingiustizia.
Mia madre diceva che la morte di Giuseppe Fava è stata una perdita non solo personale, ma di tutta la comunità. Allora anche la sua eredità va condivisa, con chi lo ha conosciuto direttamente e con chi lo conosce oggi, a quarant’anni dalla sua morte, anche grazie a questo libro.
L’autrice di questa prefazione è la nipote di Giuseppe Fava
La Repubblica Palermo, 5 gennaio 2024
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