martedì, gennaio 16, 2024

IL DIALOGO. Il siciliano perde le sue parole quando cambiano i costumi


Domani si celebra la Giornata nazionale del dialetto: per l’occasione pubblichiamo uno stralcio di una trasmissione radiofonica Rai del 1981 che vide il confronto tra il giornalista e il professore. Nessuno dice più “giugnettu” per indicare il mese di luglio, o “cìcara” per la tazzina di caffè. La storia di una parola va legata a quella delle cose, delle consuetudini che spariscono. La progressiva scomparsa del dialetto e al contempo la sua tutela, il suo rapporto di osmosi con la lingua italiana e il suo procedere con un torrente impetuoso sono i temi che furono dibattuti da Pippo Fava e Giovanni Ruffino

di Giuseppe Fava e Giovanni Ruffino

Giuseppe Fava: « Perché “ siciliano tra dialetto e lingua”? Sento molto spesso affermare con foga che il siciliano è una lingua, non un dialetto. Come stanno le cose?» Giovanni Ruffino: « In effetti esiste un atteggiamento molto diffuso oggi in Sicilia (ma anche in altre regioni), e cioè che essendo il dialetto qualcosa di deteriore, quando ci si riferisce al siciliano occorre definirlo come lingua».
Fava: «Dunque il siciliano è un dialetto...». 


Ruffino: «Il siciliano è un dialetto. Occorre sgomberare il campo dal pregiudizio per cui, se diciamo che il siciliano è una lingua, ci si deve sentire felici e contenti, mentre se diciamo che è un dialetto, ci si deve sentire mortificati e frustrati. Si tratta di una distorta visione aristocratica del proprio idioma». 
Fava: « Ma allora cosa dobbiamo intendere per dialetto siciliano? Spesso si sente dire che il vero siciliano è il catanese; altri dicono che il vero siciliano è quello che si parla nei piccoli centri dell’interno dell’Isola. Qual è il parere del dialettologo?» Ruffino: «Ma io, anche in questo caso, scontenterei gli uni e gli altri. Direi che, a volerci ben pensare, quello che solitamente viene definito come dialetto siciliano non è che una sorta di astrazione, e che occorre semmai riferirsi alla concretezza delle singole varietà locali, che sono diverse, e spesso assai diverse l’una dall’altra». 
Fava: «Lei però non ha ancora risposto alla domanda iniziale, e cioè: perché “siciliano tra dialetto e lingua”? Forse è una questione mal posta?». 
Ruffino: «Al contrario. È una questione di grandissima attualità, e non soltanto per il siciliano. La questione io la porrei intanto così, molto semplicemente, e cioè sino a qualche tempo fa, quando si pensava alla situazione linguistica di un dato territorio, si filtrava tale situazione attraverso uno schema bipartito lingua/ dialetto. Le cose non stanno affatto così. Questo schema bipartito ha da tempo perduto il suo carattere di netta opposizione. Nell’incontro di questi due poli - il dialetto e la lingua - si sono verificati invece fenomeni di vicendevole compenetrazione, per cui il dialetto ha accolto vocaboli e forme proprii della lingua, mentre la lingua si è arricchita di non pochi tratti dialettali». 
Fava: «E quali sono le conseguenze di questo processo di compenetrazione?». Ruffino: « Da una parte, sul versante della lingua, il così detto italiano regionale; sull’altro versante, invece, vi è indubbiamente una costante regressione nell’uso del dialetto e, al tempo stesso, una sua progressiva italianizzazione. Avviene, cioè, che vanno perdendosi alcuni tratti dialettali assai tipici, sino a poco tempo fa assai radicati nell’uso». 
Fava: « Potrebbe fare qualche esempio?». 
Ruffino: «Due o tre anni fa venne condotta una ricerca in una scuola media di Palermo, da cui emerse tra l’altro che parole come strùmmula, trottola, truppicari, inciampare,grasta, vaso per fiori, risultano ignote a oltre la metà degli intervistati, mentre appena il due per cento dei ragazzi dimostra di conoscere il nome dialettale della ragnatela (filìnia)o del macellaio (chianchieri). 
In questi casi e in numerosi altri ancora va prevalendo la corrispondente forma dell’italiano». 
Fava: «Ho letto recentemente che una lingua, un dialetto possono paragonarsi a un fiume che scorre e si rinnova continuamente. Credo si possa dire la stessa cosa del dialetto siciliano...». 
Ruffino: L’immagine è suggestiva e io la condivido, mi sembra davvero appropriata. Certo, anche il dialetto siciliano ha subìto nel corso dei secoli numerose e spesso profonde trasformazioni. Oggi, poi, il dialetto continua a rinnovarsi seguendo ritmi assai più accelerati che in passato». 
Fava: «E la Sicilia è stata sempre esposta agli influssi più svariati, alle presenze più disparate. Cos’è che determina questo rinnovamento del dialetto, oggi in modo particolare?». Ruffino: « Io non appunterei l’attenzione soltanto sulla situazione odierna. Certo, oggi tutto si svolge in maniera più concitata, direi tumultuosa, tanto che, per tornare alla sua metafora, il paragone lo farei più con un torrente impetuoso che con un fiume tranquillo. Guardi, forse ricorrerei anche a un’altra metafora, a un’altra immagine, quella degli strati geologici. Cosa vuol dire? Vuol dire che, così come esistono vari strati di terreno che si sono depositati durante le ere geologiche, esistono anche vari strati linguistici. Quando uno strato linguistico si sovrappone ad un altro, ciò è dovuto assai spesso alla forza di correnti linguistiche nuove provenienti dall’esterno». 
Fava: «Vi sono anche altre cause che hanno provocato e provocano l’indebolimento e la scomparsa di determinate parole?». 
Ruffino: «Direi che oggi in modo particolare molte parole vanno scomparendo perché ad esse vengono attribuite, a torto o a ragione, connotazioni negative, appaiono cioè legate a un uso troppo marcato del dialetto. Oggi, per esempio, non si dice più giugnettu ma lugliu,i gemelli non si chiamano più èmmuli ma giamelli, la tazzina di caffè non si chiama più cìcara, la cipria non viene più chiamata pruvigghia, la forchetta è, nel siciliano d’oggi,a furchetta, non più a burcetta ... Potrei continuare a lungo. Vi è pero un terzo motivo per il quale certe parole scompaiono. Si tratta di una ragione elementare: molto spesso le parole seguono la sorte delle cose». 
Fava: «Vuol dire che se la cosa scompare, scompare anche la parola corrispondente ...». 
Ruffino: «Non può che essere così. La storia di una parola va strettamente legata alla storia della cosa. E badi che per “cose” non bisogna intendere soltanto oggetti, ma anche idee, consuetudini. Pensi un po’ alla struttura dell’antica casa rurale siciliana, sistemi costruttivi e architettonici appartenenti al passato; all’esterno, per esempio, un rialzo in muratura addossato alla parete, un sedile di pietra, la icchena o ittena: quanti in Sicilia usano ancora questa parola? All’interno della casa, poi, la tannura (gli antichi fornelli), altra parola scomparsa assieme alla cosa. Pensi anche agli antichi e rudimentali chiavistelli ormai non più adoperati così come le corrispondenti parole sùcchiaru, naticchia ». 
Fava: «Sto ricordando che sino a qualche tempo fa il marciapiede si chiamava giacatu ...». 
Ruffino: «Sì, perché si costruiva con le ciache, i ciottoli; oggi i marciapiedi sono incementati o piastrellati. Ma prima dicevo che anche le consuetudini sotto questo aspetto sono “cose”». 

La Repubblica Palermo, 16/1/24

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