di Marco Madoni
"Rombo di tuono", così lo chiamava Gianni Brera. Perché è stato il più forte attaccante d’Italia. Dopo un lungo silenzio, e mentre un docufilm lo celebra, ci parla del calcio di ieri e di oggi, di politica, amici, canzoni, banditi e depressioni
Cagliari. A righe e a quadretti. Per Gigi Riva non faceva differenza. Anzi, forse meglio a quadretti; potevano ricordare la rete della porta dei campi di calcio. Nei primi anni Settanta, in Sardegna, il volto in multicolor alla Warhol dell’idolo del Cagliari e della Nazionale conquistava addirittura le copertine dei quaderni Pigna per i bambini delle elementari. Persino di chi, continentale, tifava Juventus. Poco importa, Riva era Riva. Anzi Giggirriva, tutto raddoppiato, all’isolana, e tutto attaccato, miticamente, come conviene a quei pochi, pochissimi che dall’iperuranio riflettono la propria immagine in carne e ossa al centro degli stadi.
Questo soltanto per ricordare di chi parliamo; se mai qualcuno lo avesse dimenticato o se i più giovani non avessero idea del più grande attaccante del calcio italiano, 35 gol in azzurro su 42 partite, media pazzesca, un record che resiste da quasi cinquant’anni. E chissà per quanto tempo ancora.
Il suo celebre gol in rovesciata contro il Vicenza
Poterci parlare, oggi come ieri, è impresa ardua. Riva ha perpetuamente blindato il suo privato, dribblato i giornalisti e i fotografi. Detto pochissimo. E ha fatto del rigore etico il tratto distintivo della sua esistenza. Un perfetto hombre vertical, o homine balente per dirla alla sarda. I suoi no sono da collezione: ai grandi club che lo avrebbero coperto di soldi, agli sponsor pubblicitari, al cinema, agli inviti, alle apparizioni pubbliche. Oggi vive all’ultimo piano in un condominio cagliaritano, mentre la maggior parte dei giocatori della Serie A contemporanea, viene da pensare, abita ville con non meno di cinque bagni. Eppure, per dire, lui ha disputato una finale mondiale con avversari Pelè e Rivelino, vinto quattro giorni prima la partita del secolo (scorso, ma forse non solo) contro la Germania, conquistato il titolo europeo con la Nazionale, messo in bacheca tre trofei di capocannoniere. Oltre al campionato del ‘70, chiaro. E, soprattutto, nessuno come lui in Italia aveva in dote un sinistro tanto esplosivo. La palla colpita quasi sempre di collo pieno, il piede a sfiorare appena il terreno, una dinamica perfetta. E la porta centrata nove volte su dieci. Vedi un po’.
Se oggi ci è possibile suonare al suo citofono lo dobbiamo al regista Riccardo Milani, autore di commedie di successo, che ha appena firmato un docufilm sulla vita e le gesta di Riva, Nel nostro cielo un rombo di tuono, con un titolo che riprende l’attributo cucito addosso al campione da Gianni Brera, e che uscirà nei prossimi giorni nelle sale. Ha fatto un’impresa, Milani, se vogliamo anche soltanto nel riuscire a tenere una telecamera accesa davanti a Riva. Ma è diventato prima di tutto suo amico. E per il lombardo Gigi, sardo di adozione, senza retorica, per carità, la detesta, l’amicizia è sempre valsa più di un gol. Roba non da poco.
E’ proprio Milani che ci apre la porta, presentandoci anche agli amici che fanno da compagnia a Riva in questa intervista in cui si parlerà di calcio e politica, di Draghi e Meloni, di De André e Zeffirelli, di Lo Bello e Rivera. E di un incontro segreto e finora mai rivelato con il bandito Graziano Mesina. Sul divano siedono anche il libero del Cagliari di allora, Giuseppe Tomasini, pronto a integrare i racconti dell’ex compagno divenuto praticamente un fratello, e l’amico Sandro Camba, dirigente della Federcalcio. Intorno, si muovono i due figli di Riva, Nicola e Mauro, che lo seguono amorevolmente, lo stimolano, considerando che il papà, il 7 novembre 78 anni, da un po’ di mesi si rifiuta di uscire, prediligendo alle strade del capoluogo sardo che lo osanna, al ristorante quotidiano di Giacomo Deiana, ma anche alla spiaggia del Poetto, la sua poltrona bianca e le sigarette.
Circondato da una boiserie tappezzata da foto e trofei. E da più d’un cartello con l’ammonimento a stampatello di Nicola: “Ricordati di bere e di camminare per almeno quindici minuti”.
Beh, Riva, almeno si godrà qualche partita in tv. In chi si rivede oggi: Benzema, Mbappé, Vlahovic?
“Non so”. Pausa. Segue lieve, timido imbarazzo. Poi l’affondo: “Io non vedo alcuna partita”.
Lei non segue il calcio? E perché?
“Perché il calcio di oggi mi annoia. E’ così monotono, si passano la palla da una parte all’altra del campo, aspettando soltanto che si apra un varco. Troppo lento. Noi eravamo più rapidi, andavamo presto in verticale. E via a cercare il gol”.
Il gol, appunto, così importante per lei. Quell’esultanza con le braccia alzate, tese, i pugni chiusi, un gesto quasi adolescenziale, come se giocasse ancora nell’oratorio di Leggiuno da don Piero...
Anche qui si ferma un momento, sembra fissare il vuoto. Finché: “Per me il gol era la liberazione, voleva dire passare poi una settimana tranquilla, aver fatto bene il mio lavoro. Se per di più si trattava di una rete decisiva, allora ero ancor più contento per i compagni”.
Eppure, per carità, per uno che era solito trasmettere emozioni zero, quel momento sembrava anche voler dire qualcosa in più, una specie di momentanea liberazione.
“Certo, era la rabbia che esplodeva. Nel calcio ho trovato quello che la vita non mi aveva dato. Non ho avuto un’infanzia facile, ho perso mio padre, mia sorella e mia madre, dimenticavo tutto per un momento soltanto quando giocavo a pallone. E a Cagliari ho avuto un po’ di serenità, un minimo, anche grazie ai miei compagni che mi hanno sempre aiutato. E grazie alla Sardegna che ha sempre manifestato grande affetto”.
Affetto che lei ha ripagato rinunciando ai grandi club del Nord, che la volevano a tutti i costi.
“Nella vita ero passato da un pianto all’altro. Qui tutto mi sembrava meno doloroso. Per forza ho rifiutato tre trasferimenti”.
Tanto dolore, tanta gloria inframezzata da lunghi infortuni, poi le scarpette appese. Quindi, ci permettiamo di parlarne perché lo ha già fatto una volta anche lei pubblicamente, l’avvento della depressione.
“Parliamone pure, è una parola grossa, ma va detta. La porto addosso, ci sono abbonato. Ci sono cascato dentro quando ho smesso di giocare. Mi schiacciava. Ma ora sto meglio”. E la palla passa a Nicola: “Finalmente ha appeso l’abito di Giggirriva, è tornato a essere soltanto Luigi e si gode la famiglia”. Riprendiamo.
Se non ama le partite, vediamo però che non si perde i tg.
“Ma c’è troppa politica, venti minuti su mezz’ora. Un’esagerazione, la gente è stanca e poi ecco che cosa succede”.
Che cosa succede?
“Che votano in questo modo”.
Cioè? Lei ha votato?
“Io no, perché sapevamo tutti come sarebbe andata a finire”.
Non è quindi soddisfatto di Meloni premier?
“Per niente. Io la penso diversamente”.
Ci scusi sempre, visto però che siamo in argomento: quando in passato ha votato, lo ha fatto a sinistra?
“Più al centro”. “Io invece a sinistra”, interviene deciso Tomasini, “mio padre era partigiano, ho sempre scelto così. E la situazione attuale proprio non mi piace”.
E Draghi? Lei, Riva, così autorevole, capace, apprezzato in tutto il mondo, potrebbe anche essere considerato, se vogliamo, il Draghi del calcio. In fondo per molti anni ha ricoperto il ruolo di dirigente della Nazionale.
“Draghi mi piace, è bravo, in quest’Italia che fatica…”.
Chi non le piace, invece, guardando anche all’estero?
“Putin. Andrebbe fermato, ha sbagliato tutto invadendo un altro Paese libero”.
E i No Vax?
“Mi hanno contestato perché ho scelto il vaccino, ma sono loro che dovrebbero stare zitti, non io”.
Alcuni dei suoi principali trofei: da quello di capocannoniere del campionato alle medaglie conquistate con la Nazionale. foto di Luigi Narici / Agf
Abbiamo parlato di sinistra, centro, destra. E stavolta è la politica che può darci una mano per tornare al calcio: secondo la definizione della Treccani, lei era un “centravanti”. Eppure indossava rigorosamente la maglia numero undici che allora contraddistingueva l’ala sinistra. Come si definirebbe?
“Un attaccante, semplicemente. Sebbene abbia sempre preferito giocare in mezzo”.
In mezzo ma comunque lontano dai riflettori. Anche da quelli del cinema: il regista Zeffirelli la voleva in Fratello sole, sorella luna. E anche lì doveva interpretare, se ci è concesso, il ruolo di “prima punta”, San Francesco. Ha rifiutato rinunciando ad un cachet di quattrocento milioni. Si è mai pentito?
“Mai, volevo soltanto giocare al calcio”.
Semmai le piacevano più le canzoni e in particolare quelle di De André. Si favoleggia di un suo lungo incontro con il cantautore. Animatissimo…
“Per carità, dopo esserci detti ‘ciao’ siamo stati per un’ora quasi in silenzio. D’altronde, con i nostri caratteri… . Poi tra una sigaretta e un whisky si è sciolto un po’ il ghiaccio. E alla fine, passate ore, lui mi ha regalato la sua chitarra e io la mia maglia”.
Dove vi siete visti?
“A Genova, in casa sua, dopo una partita. Conoscendo la mia passione, aveva organizzato tutto a sorpresa un mio ex compagno che era andato a giocare nella Sampdoria”.
Conosceva anche lui la sua passione?
“Beh, quando con la squadra salivamo sul pullman io avevo conquistato il privilegio di sedermi accanto all’autista. E insieme la gestione dei nastri musicali. Mettevo sempre Bocca di rosa e La canzone di Marinella. Anche se la mia preferita era Preghiera in gennaio“.
E i suoi compagni, cantavano?
“Macché, mi tiravano di tutto, ma non mollavo. De André mi ha insegnato tanto, che se dicessi non saprei esattamente neanche che cosa. Forse ho ammirato il suo comportamento”.
A proposito di buona condotta, di quella vicinanza ai più umili tanto cara a De André: lei ha aperto nel 1976 una scuola calcio particolare, nel quartiere di Sant’Elia, gratuita per i bambini provenienti dalle famiglie disagiate.
“Ne vado fiero. E’ stata la prima in Italia. E lì, tra gli altri, è cresciuto Nicolò Barella, ex Cagliari, ora dell’Inter e della Nazionale”.
Gli azzurri, quindi: da giocatore e poi team manager, qual è stata secondo lei la squadra più forte? Quella di Valcareggi, di Bearzot, di Sacchi, di Lippi?
“La mia con dentro Baggio”.
E chi avrebbe tolto?
“Non so, ma la lui doveva starci per forza, era bravissimo”.
C’era Rivera. Andava d’accordo con lui?
“Ero obbligato: doveva passarmi la palla… Quando l’aveva tra i piedi, io scattavo, sapevo che da lì a poco mi sarebbe arrivata, precisa”.
E con Boninsegna? Qualcuno ha parlato di dissapori.
“Favole, dormivamo anche insieme in foresteria. Magari se uno aveva segnato e l’altro no c’era qualche muso durante la settimana. Tutto qua”.
Possiamo dire però che la sua spalla preferita era Gori.
“Perfetto, faceva spazio, creava gioco. Il mio ideale”.
Chi soffriva di più come difensore?
“Burgnich. Era fatto di filo e di ferro”.
Filu ’e ferru?
Risata. “Era di legno e di acciaio. Aveva un fisico spaventoso. E io non mi tiravo mai indietro. Eravamo simili. Mi metteva giù e diceva che non voleva, con l’espressione del viso un po’ falsa. Faceva parte del gioco: voleva eccome”.
E Scopigno, allenatore del Cagliari campione?
“Un fuoriclasse, competente, sempre pronto a capire le situazioni. Un giorno con alcuni compagni ci eravamo chiusi in camera per non farci vedere, avevamo acceso così tante sigarette che il fumo si tagliava a quadretti. Lui bussa, a sorpresa: ‘C’è qualcuno che ha da accendere?’ “.
Con gli arbitri come si trovava? Si parla di un diverbio con Lo Bello in un celebre Juve-Cagliari.
“C’è stato, ma con Lo Bello non vi erano problemi, semmai stima reciproca. D’altronde in campo lui era molto sicuro, competente. Aveva i suoi personalismi, però capiva di calcio. E non disdegnava di parlare con i giocatori. Era il migliore”.
Nel film di Milani si ascoltano molti giocatori di ieri e di oggi parlare di lei. Buffon la chiama “Gigione”.
“Con lui ho un grande rapporto, ma posso dire lo stesso con tutti i giocatori anche quando sono stato dirigente della Nazionale. In fin dei conti avevo mangiato lo stesso pane”.
Resta un mistero, si chiama Grazianeddu, Mesina, il bandito sardo per eccellenza. Andava allo stadio camuffandosi e le scriveva dalla latitanza quando si ipotizzava un suo passaggio al Milan o alla Juventus: le chiedeva di non muoversi. Gli ha mai risposto?
“Mai”. Silenzio. “Però…”. Altro silenzio.
Però?
“Un giorno, a Cagliari, me lo sono trovato in auto”.
E che cosa voleva? Anche stavolta che restasse in Sardegna?
“Sì”.
E lei mica avrà poi deciso così per via di Mesina?
Sorride. “Certo che no, io ho sempre deciso da solo. Figuriamoci se poi me lo diceva Mesina…”.
Sempre in auto, ma infilati sotto il tergicristallo, si narra che lei trovasse spesso biglietti di ammiratrici.
“Qualcuno. Inviavo le foto a chi le chiedeva”. E riecco Tomasini: “Qualcuno? Se noi ne ricevevamo due a settimana, lui cento”.
Riva, scusi, ma come è possibile che dopo tanti anni a Cagliari non parli ancora con il minimo accento sardo?
“Ho imparato soltanto le parolacce”. Nel salotto altra risata. Stavolta liberatoria. Anche perché per Riva la tortura, pardon l’intervista è finita.
Usciti, sotto il palazzo, sentiamo le voci di un gruppo di bambini. C’è un oratorio. Un campo da calcio. Si gioca. Ma la maglia di tutti è rossonera, non la casalinga rossoblù. Dietro la divisa, come i calciatori professionisti di oggi, i piccoli atleti hanno già scritto il loro cognome. E viene da immaginarli, in caso di rete, esultare sull’esempio dei loro idoli, con i due pollici a indicare dietro le spalle. Altri tempi.
A voltare le spalle siamo però poco dopo noi, quando, improvviso, un tripudio dal campetto ci richiama. C’è un bambino di origini asiatiche che corre slalomeggiando tra i compagni, braccia alzate, pugni tesi: “Gol, gol…”. E ce n’è un altro che si affretta a complimentarsi con lui. A voce alta. Con naturalezza: “E chi sei, Giggirriva?”.
Dall’oratorio, andiamo in pace.
Sul Venerdì del 4 novembre 2022
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