mercoledì, dicembre 06, 2023

Luciana Castellina: “I diritti dell’umanità nella tempesta“


IL 5 DICEMBRE LA FONDATRICE DEL MANIFESTO HA AVUTO CONFERITO DALL’UNIVERSITÀ DI PALERMO IL DOTTORATO HONORIS CAUSA IN DIRITTI UMANI. PUBBLICHIAMO INTEGRALMENTE LA SUA LECTIO MAGISTRALIS

LUCIANA CASTELLINA

Poiché mi è stato chiesto di intrecciare questa esposizione - che non oso chiamare Lectio – con l’esperienza della mia stagionata vita di militante - non indiscussa, anzi! – parto proprio da una memoria personale, un ricordo che non solo mi ha molto segnato ma che ha molto a che vedere con quanto in questi giorni ci lacera tutti: Gaza.


Era da poco terminata con un cessate il fuoco la guerra dei 6 giorni fra Israele e i paesi arabi, 1967, che fui inviata dalla rivista del PCI “Rinascita” ad Amman per seguire il primo fra i tanti convegni (inutili) sul futuro di Gerusalemme. Non sapevo niente di quel conflitto, se non di quando, nel 1948, nacque lo stato di Israele, l’Unione Sovietica fra i primissimi paesi a riconoscerlo, e, infatti, la prima sua ministra degli esteri, Golda Meyer, è Mosca che sceglie come suo primo viaggio diplomatico. Viene accolta da una grande folla festante nel Palazzo dei sindacati, e tutti cantano insieme l’Internazionale.

Era naturale: gli arabi erano cittadini di piccoli reazionari stati feudali dipendenti dall’Impero britannico, gli ebrei quasi tutti intellettuali europei di sinistra (fra loro il Kommunistisches Bund di Berlino). Volevano che il loro nuovo stato diventasse uno stato di sinistra. E forse anche per questo, arrivati nella terra di Palestina decisero che bisognava superare la divisione sociale del lavoro e che loro, dunque, dovevano nei nuovi Kibbuz lavorare la terra. Il risultato fu che cominciò così la cacciata dei palestinesi di cui allora non sospettavano l’appartenenza al genere umano. In questo perfettamente simili a tutti gli altri occidentali dell’epoca.

Al convegno di Amman venimmo avvicinate, io e una giornalista inglese, da alcuni palestinesi che ci chiesero se volevamo visitare un campo profughi non lontano dalla capitale giordana. Scoprii così il primo (già peraltro vecchio di vent’anni) dei tantissimi che nei 70 anni successivi avrei frequentato ed è lì che mi regalarono una grande foto della loro scuola, tanti bambini a sedere per terra nella sabbia. L’ho ancora attaccata alla parete della mia stanza.

E però la gita non si fermò lì. Le nostre guide ci proposero di visitare un altro campo, nei pressi di una cittadina più a nord, proprio al confine con Israele. Ma quando arriviamo, improvvisamente, nel cielo, e nonostante il cessate il fuoco, appare una squadriglia aerea Israeliana che comincia a bombardare. Ci gridano di gettarci sotto le automobili parcheggiate per ripararci e, per fortuna incolumi, dopo 20 minuti, finito l’imprevisto raid, corriamo verso l’ospedale per capire cosa sia successo: stavano già portando con tutti i mezzi i feriti, molti, purtroppo, già cadaveri. Sulla porta un giovane medico palestinese, con una bambina morta fra le braccia. Appena mi vede mi mette il cadavere della piccola in grembo, quindi, quando ho superato lo choc, mi trascina dentro l’ospedale per mostrarmi i feriti già arrivati, stesi per terra nei corridoi, assistiti alla meglio. Poi mi guarda in faccia, e, senza simpatia, mi dice: “così imparerete cosa è la questione palestinese.”

Credo di aver imparato perché da allora ho fatto molti su e giù con quel pezzo di Medio Oriente, dove da parecchio non posso più andare perché l’ultima volta mi hanno preso per i piedi all’aeroporto di Tel Aviv e cacciato dal paese come persona “non grata”.

Nel ricordare questo episodio non posso far altro che dire: “W l’ONU”. La brutale aggressione verbale, pochi giorni fa, al suo segretario generale da parte dell’ambasciatore di Israele che ne ha chiesto le immediate dimissioni, era motivata dal fatto che Gutierrez aveva detto: “ Hamas va condannata, ma Hamas non è caduta dal cielo, è il frutto della storia che ha reso vittima la Palestina.” Cioè, una verità.

Fosse anche solo per questo vorrei preservare l’Onu ma non posso non essere allarmata per il fatto che la sua impotenza è sempre più evidente, in quest’ultima vicenda così totale da imporci di rivederne totalmente l’assetto. Continuare a parlare di tutela dei diritti umani sarebbe altrimenti ridicolo e non ce lo possiamo permettere.


Vorrei ora spiegare perché ho scelto di usare nel titolo che ho dato a questa mia lezione la dizione “diritti dell’umanità” anziché “diritti umani”. Innanzitutto, perché non sono la stessa cosa e poi perché in questi ultimi decenni la definizione “diritti umani” ha finito, sia pure inconsapevolmente, per essere intesa come diritto per sé, per sé come individuo; e in una fase storica in cui a tal punto si è accentuato l’individualismo e sempre meno vive l’attenzione per l’altro - il noi (non solo il me) - ha oggettivamente finito per significare che quei diritti sono più importanti di quelli collettivi. Questi vengono in genere chiamati “diritti sociali” e non a caso nel sistema giudiziario dell’Unione Europea sono finiti per avere una collocazione di grado inferiore, appaiono insomma come un’aggiunta, certo anche perché quelli individuali hanno in questo tempo ricevuto assai più sostegno nell’opinione pubblica. È, questo, io credo, uno degli aspetti della crisi della democrazia che stiamo soffrendo e che è anche crisi della politica. È crisi del “Noi”, prevale ormai sempre l’io, l’”io da solo forse me la cavo”.

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Parlare di diritti dell’umanità, significa parlare anche di politica internazionale e dunque stabilire – e attrezzarsi a far rispettare - le norme che dovrebbero regolarla. E questo non si può fare se non si prende in conto l’antefatto, il contesto, senza il quale tutto rischia di diventare molto equivoco. E infatti lo diventa.

Prendete l’accusa di “terrorismo”, una cosa decisamente brutta, da condannare in ogni caso direi io che sono pacifista, ma non possiamo scordare che Terroristi venivano chiamati i guerriglieri algerini in lotta per strappare il loro paese dalla condizione coloniale, e così i Mau Mau kenioti e ogni altro movimento in lotta per liberarsi dal colonialismo, tant’è vero che spesso il capo terrorista poteva poi diventare acclamato primo ministro. (E del resto, ricordando quelle lotte di liberazione nazionale, non si può certo dimenticare che nella prima carta dell’Onu, quella varata quando i membri della nuova organizzazione furono solo 50, il colonialismo non venne neppure nominato, come era del resto naturale essendo una buona parte dei 50 imperi coloniali!).

Terroristi, del resto, furono definiti anche quelli dell’America Latina impegnati a cacciare le dittature insediatesi nei loro paesi, o, ancora, lo scandaloso caso dei Kurdi. E poi però ci sono anche le ingiustificate BR, o l’Isis: possono essere considerate uguali, a quelle che ho citato o non occorre capire ogni volta il contesto, l’antefatto, la loro motivazione, per non correre il rischio di dare giudizi assolutamente arbitrari?

Non dovremmo accompagnare l’Onu con un organismo espresso dalle ONG che si occupano di diritti dell’umanità e non ascoltare solo gli stati che talvolta possono anche essere terroristi loro stessi? Gli stati, purtroppo, possono diventare lori stessi terroristi”? Quanto al “diritto di veto”, di cui alcuni stati godono tutt’ora, si tratta di un bel stravagante diritto, non vi pare? Senza pensare che a distorcere più di ogni altra cosa l’obbiettività dei giudizi è una informazione attualmente alimentata all’85% da fonti occidentali, e quindi segnata da un potere egemonico decisivo. 

Servirebbe dunque un organismo ovviamente privo di potere deliberante ma almeno utile a sollecitare una riflessione critica nell’opinione pubblica sulle sentenze “ufficiali”, tale da far ragionare sulla necessità di tener conto di quanto di negativo può produrre la condotta sempre più illegittima dei più potenti. E fra l’uso arbitrario delle parole vorrei metterci in primo luogo quello che dichiara democratico un paese anche solo perché ha un parlamento, evitando di denunciare, per es., l’apartheid che sembra ormai superata antica pratica in uso nel Sud Africa ormai sconfitta visto che tutti si sono ormai dotati di un qualche parlamento. Lo stesso Parlamento europeo ha a lungo tollerato l’apartheid del Sud Africa, e oggi non ha il coraggio di denunciare questo tipo di discriminazione, che, sia pure in modo meno radicale, è tutt’ora in atto, magari arricchito dall’approvazione di un Parlamento.

Un organismo privo di potere legale non serve? Certo ne ha poco. E però può avere un valore non solo simbolico, ma morale e anche pratico, se è gestito equamente.

Fra le mie esperienze di vita ce ne è una che considero preziosa: quella di aver molto spesso fatto parte della “corte internazionale giudicante” del Tribunale per i diritti dei Popoli, inizialmente Tribunale Russell (cominciò col Vietnam), poi, negli anni ’70, ripreso da Lelio Basso e tutt’ora molto impegnato. Al suo attivo ormai 50 processi accuratamente preparati dagli stessi popoli “reclamanti”, aperti a preziose testimonianze, che ci hanno consentito di raccogliere una assai ricca e accurata documentazione su tutte le violazioni, ufficiali o ufficiose, dei diritti sanciti dal sistema ONU. E dunque a rivelare quanto poco

democratici siano molti stati ufficialmente considerati tali. Quando dico che una organizzazione simile può anche produrre effetti concreti penso in particolare ad uno dei processi più recenti fra quelli che abbiamo promosso, quello sulla Columbia, credo essenziale ad avere facilitato l’elezione finalmente di un presidente democratico del paese, Gustavo Petro.

Sarebbe bello se proprio dalle Università in cui come questa di Palermo si studiano i diritti dell’umanità partisse un’iniziativa per sviluppare ulteriormente l’idea di un Tribunale morale che fosse pienamente rappresentativo di tutti i pezzi di mondo dove

abitano gli umani. (Io che sono molto vecchia ho avuto modo di imparare quanto importanti siano stati “gli scioperi a rovescio”, quelli inventati dai bracciati meridionali nell’immediato dopoguerra quando si cominciò a lottare per una riforma agraria in Italia ancora mai nemmeno tentata. Si trattò di una invenzione straordinaria: siccome il grande agrario assenteista non voleva investire per trasformare le sue terre incolte in risorse produttive, loro, anziché astenersi dal lavoro che peraltro non avevano, per protesta andarono in lunghi cortei di donne uomini bambini animali e bandiere rosse, a zappare il latifondo. Dimostrarono che ogni tanto bisogna ricorrere a quella che molti decenni dopo, nel ’68, fu chiamata “pratica dell’obbiettivo”, e cioè non aspettare l’incerto risultato della trattativa ingaggiata per far accogliere la loro richiesta, ma applicarla direttamente. Così alla Fiat gli operai stressati dai ritmi infernali imposti dalla velocità della linea di montaggio cominciarono a rallentarli loro stessi applicando quello che divenne celebra col nome di “salto della scocca”: degli scheletri delle auto che passavano sulla catena di montaggio e che loro avrebbero dovuto riempire di altri pezzi, cominciarono a “riempirne “solo uno sì e uno no. Noi potremmo invece aumentare i ritmi della giustizia, moltiplicando processi come quelli del Tribunale dei popoli, aiutando a dar visibilità alle loro sentenze.

Questo paragone non vuol essere una incitazione alla disubbidienza, e però sì nel senso di preparare il terreno perché i verdetti siano più giusti, sostenuti dalla maturazione di una cultura, di una visione del mondo, realmente universalisti. Creare, in questo caso, un organismo dotato di autorità morale e farlo agire affinché anche se le sue decisioni non hanno validità legale aiutino però, già così, a rendere popolare il verdetto di organismi non governativi.

Quanti sono infatti quelli che sanno, o ricordano, le sfacciate discriminazioni operate nell’attribuzione delle colpe di una o dell’altra parte del mondo.? Basti pensare al modo in cui è andata regolandosi la questione delle responsabilità individuali dei crimini di guerra, affidata alle nuove Corti via via nate qui e là. La prima vide la luce subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quella di Norimberga, che giustiziò 22 nazisti, e 28 criminali giapponesi. Il procedimento non era in realtà proprio legale, ma era certamente sostenuto, e dunque giustificato, da una grandissima parte del mondo.


L’intera materia della responsabilità individuale fu regolata a Dumbarton Oaks, nei pressi di Washington, dove si riunirono i 3 Grandi di allora che stesero la Carta delle Nazioni Unite poi fatta assumere dai primi 50 stati membri dell’ONU. Ed è sulla base di quanto dice quella Carta che fu affidato al neonato Consiglio di sicurezza il compito di decidere quale guerra doveva esser considerata d’aggressione. E però, sebbene sia gli USA che URSS di guerre d’aggressione nel frattempo ne abbiano fatte parecchie (Vietnam ,Guatemala, Cuba, Santo Domingo, Grenada, Libia, Panama, Iraq, Ungheria, Cecoslovacchia, Afganistan) non è mai successo niente. Non parliamo poi delle responsabilità personali in Jugoslavia e in Iraq. La procuratrice generale della nuova Corte dell’Aja, Carla Da Ponte, ha archiviato, tanto per fare un esempio, tutte le denunce contro la Nato per i suoi bombardamenti su 
Belgrado, né ha mai detto niente sui 42 giorni di bombardamenti nella prima guerra dell’Iraq in cui - è stato calcolato –si è usato più esplosivo di quanto ne sia stato usato durante tutta la Seconda guerra mondiale da parte di tutti gli alleati. (Vedi il volume di Zolo)

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Certo, guardando alla guerre attuali che si stanno moltiplicando e che diventano sempre più crudeli, e che, fra l’altro, entrano adesso come suadente spettacolo nelle nostre stesse case, mi domando come sia possibile che proprio la guerra, la sola cosa che un documento ONU dice con chiarezza essere un crimine ( art.5 dello Statuto della Corte penale Internazionale ) abbia in varie forme continuato a dilagare e che le siano state date in seguito una quantità di specificazioni , quasi che qualcuna fosse legittima; e perché, invece di limitarsi a parlare di “crimini di guerra”, non si ripete che è la guerra ad essere un crimine in sé, una modalità di soluzione dei conflitti internazionali che appare ormai, o dovrebbe apparire, solo un retaggio medioevale: l’uso delle armi?

Così come non si capisce che senso abbia la risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU del dicembre ‘94 in cui anziché limitarsi a riprendere la dizione chiara già usata abbia voluto tornare sull’argomento usando parole meno limpide come “atto illecito e intenzionale causante morte” : una indeterminatezza fonte del massimo arbitrio, che può condurre al massimo abuso. Perché non dovrebbe essere dunque possibile condannare il ricorso alla guerra in quanto tale, anche quando viene ribattezzata “umanitaria” e concessa come strumento legale per combattere l’Isis come, per esempio, è accaduto dopo l’attacco alla Torri gemelle, o in Afganistan , sia per opera dell’URSS che degli USA ? E’ cioè possibile che la guerra, pur essendo la sola attività chiaramente condannata dall’Onu, venga invece arbitrariamente addirittura regolata, acquisisca delle specificazioni: quelle giuste, quelle necessarie, quella barbare....? E tutto questo in base a criteri oscuri, senza peraltro tener conto di quanto invece dovrebbe esser utile a capire meglio, non per giustificarla ma per poi poter prendere le misure atte ad incidere sui processi che le hanno fatte scoppiare e dunque per agire per impedire che esse si ripetano?

Penso a quella dell’Ucraina: basta condannare Putin, come comunque è necessario, o non servirebbe, anche, in questo caso, valutare l’antefatto, il contesto? E cioè la circostanza che ha visto - dopo che Gorbačëv aveva ritirato le truppe del patto di Varsavia dalla Germania e addirittura sciolto la Nato dell’est, e dopo che era stato sottoscritto un accordo , non verbale ma scritto, ancorché tenuto riservato, in base al quale la Nato non avrebbe dovuto superare i suoi confini verso est –vedere dopo poco tempo i paesi aderenti all’Alleanza Atlantica passare da 12 a 30, mentre le sue basi venivano collocate tutte intorno alla nuova Russia, così aggiungendosi alle 800 che gli Stati Uniti avevano già in giro per il mondo? Non sarebbe forse stato possibile evitare la guerra attuale se si fosse cominciato col protestare contro una politica così dissennata come quella dell’occidente alla caduta del Muro, quando, anziché cercare di includere pacificamente la Russia in una nuova rete di collaborazione europea che riconquistasse alla democrazia una nuova generazione disorientata, ha invece preparato il terreno sul quale Putin con il suo revanscismo è diventato popolare nel suo frustrato paese?

Dico queste cose non per recriminare ma perché la pace e la guerra non sono materia facilmente governabile. Fermarle in base al reciproco consenso è difficile. Si può farlo solo se si imbocca la difficile ma essenziale strada della trattativa, per stabilire un accordo con l’avversario, non fra quelli che lo oppongono. Uno degli slogan del grande movimento pacifista europeo degli anni ’80, di cui mi onoro di esser stata coordinatrice assieme a Ken Coates, all’epoca presidente della Bertrand Russel Foundation, era proprio questo: i patti si fanno con i nemici non con gli amici (in questo caso costruendo la Nato.)

Non dovremmo dunque innanzitutto batterci ben più di quanto facciamo affinché l’ONU acquisisca più potere decisionale, e non dovremmo con più forza insistere affinché l’Onu stessa alzi di più la propria voce per far capire che siamo ormai arrivati ad un punto in cui un sistema tutto fondato sul superiore potere dell’Occidente non regge più ? Credo che se vogliamo salvare i diritti umani conquistati in questi decenni sia necessario far capire che occorre liberarci della tronfia esaltazione dei c.d. “valori occidentali”, accompagnata dall’omertà con cui vengono coperti i suoi delitti. Il mondo non è più disponibile ad ingoiare. Certo che in 0ccidente viviamo meglio che negli altri continenti, con più libertà e più sostegni sociali. Ma possiamo scordarci che questo è perché, in particolare in Europa, abbiamo fatto molte lotte e molte rivoluzioni che abbiamo però impedito, con i mezzi più feroci, che gli altri popoli facessero?

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Nel titolo ho inserito anche la parola “tempesta”. Non vedo altro termine che potrebbe meglio di questo indicare quanto sta accadendo nel mondo. Qualcosa che ha visto come vittime innanzitutto i diritti dell’umanità e della natura, l’insieme del sistema costruito dall’ONU, accendendo la speranza nel lontano 1948 che fosse arrivato il momento di incamminarci verso un mondo migliore.

La conclusone che ne possiamo trarre è che l’Onu non è in grado di far rispettare le norme stabilite che continuano ad essere interpretate e applicate dai vincitori, sempre immuni da condanne. Quando Bush, più forte che mai per aver vinto anche la guerra fredda, lancia il suo “New World Order”, è ormai sicuro di poter decidere su tutto. Anche sulle decisioni dell’ONU. Dipende, come sappiamo, dalla struttura gerarchica fissata sin dall’inizio con la creazione del Consiglio di sicurezza. E naturalmente questo si riflette anche sulle scelte della Nato, come è stato codificato dal vertice tenuto a Roma nel ’91: l’Alleanza Atlantica, inizialmente concepita come patto regionale, ha ormai superato i confini iniziali, si estende a tutto il mondo.

Il termine “tempesta” se lo riferiamo al nostro tempo attuale diviene tuttavia oggi anche molto più drammatico, giacché la tempesta è oggi infinitamente più grave di quelle del passato. Perché la crisi attuale non è una crisi congiunturale come ce ne sono state spesso ma una crisi strutturale, che investe l’intero nostro sistema, e che dunque non può essere superata con misure minori, bensì solo con un mutamento radicale del nostro modo di produrre, di consumare, di vivere insieme. Un tempo l’avremmo chiamata “crisi del capitalismo”, ma adesso, siccome l’idea fa paura, si usa chiamarla “crisi del modello di sviluppo”.

Quale che sia il nome si tratta del fatto che è ormai indispensabile una rottura, una rivoluzione, e dipende da quello che faremo se il “mondo nuovo” sarà migliore o peggiore, e cioè in poche parole, se a vincere saranno i potenti di oggi – che anche loro per sopravvivere dovranno fare la loro – o quelli che del sistema vigente hanno sempre patito, sebbene fosse infinitamente migliore di quello che potrebbe venire. In passato, infatti, e in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, il capitalismo ha conosciuto un grande sviluppo, certo ineguale, ma comunque positivo: crescita industriale, innanzitutto, che ha dato i margini per un miglioramento della condizione di vita di una parte considerevole dell’umanità. Quello che ha offerto i margini ai potenti per stabilire un compromesso sociale, quella mediazione che è stata chiamata “compromesso socialdemocratico”.

Quei margini oggi non ci sono più e per poter conservare il loro potere i potenti dovranno ricorrere alla violenza, per conservare a loro esclusivo vantaggio quanto – comunque pochissimo – rimarrà disponibile dopo che la Terra sarà stata investita in pieno dalla catastrofe ecologica.

La crisi che comunque covava da più tempo ha avuto la sua grande impennata nel 1970/1, quando salta il sistema c.d. di Bretton Woods, dal nome della località nei pressi di Washington dove, nel ’44, era stato raggiunto un accordo fra le potenze vincitrici che avrebbe dovuto garantire pace e quiete sociale dopo i disastri della guerra. Era basato sulla stabilità dei cambi e sulle regole affidate alle nuove istituzioni internazionali che avrebbero dovuto sorvegliare il suo funzionamento – Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale. Il tutto veniva reso possibile dalla centralità affidata al dollaro ancorato al prezzo dell’oro e il tutto era basato sulla forza militare ed economica degli Stati Uniti.

La stabilità già non era più mondiale quando scoppia la guerra fredda, che escluse il blocco sovietico, ma nel ‘70 la scossa è molto più forte perché sono intervenuti molti fatti nuovi, l’ingresso sulla scena mondiale dei paesi del terzo mondo, i non allineati, e perché nel frattempo si sono moltiplicate le lotte operaie e studentesche in tutto il mondo. È allora che si comincia a scoprire che non è più possibile applicare il compromesso sociale che aveva garantito una relativa quiete, perché l’industrializzazione non può espandersi a tutto il globo, oltretutto perché si aggiunge la scoperta dirompente della devastazione che sta producendo sulla natura.

A Tokio, dove si riuniscono, preoccupatissimi, i tre pezzi forti dell’Occidente – Usa, Giappone, Europa ovest – danno vita ad una alleanza chiamata Trilateral che, nel suo “manifesto” programmatico scrive apertamente: in questi anni si è sviluppata nel mondo troppa democrazia, il sistema non se lo può permettere, l’economica è cosa troppo importante per poterla affidare alla politica. Deve essere affidata agli “esperti”, come se un popolo possa essere trattato come una banca.

E’ di qui che si afferma la parola governance, ormai inconsapevolmente usata dalle nostre stesse organizzazioni - senza capire che ha tutt’altro significato : che non è un modo di organizzarsi in voga nell’efficiente occidente e perciò parola inglese; che non è soprattutto equivalente a “governo” - termine che prevede un orientamento democraticamente definito in base alla sovranità popolare ma (come si può leggere sul vocabolario che la spiega come “funzione di direzione e controllo delle organizzazioni economiche”. Nello specifico contesto della Trilateral: l’attività affidata ai neutrali tecnici delle imprese! Non è un caso se da quando è entrata in uso quella parola le politiche economiche dei governi di destra e di quelli di sinistra abbiano cominciato ad assomigliarsi tanto. È come sempre per via dell’imbroglio del neutro!)

Di qui la sempre crescente privatizzazione, persino del potere deliberativo dei cittadini, le decisioni che contano sempre più essendo prese a livello del mercato globale da soggetti privati – gruppi finanziari e multinazionali – assistiti nella loro attività da avvocati e notai altrettanto privati nel adottare misure che hanno conseguenze ben più pesanti di quanto abbiano le decisioni di un qualsiasi parlamento nazionale o sovranazionale. Forse dovremo arrivare a dover lottare per il diritto umano di non esser costretti a subire decisioni assunte privatamente!

A interpretare e attuare per primi la nuova linea dell’imponendo capitalismo furono Thatcher e Regan introdussero la devastante deregulation che cominciò a infierire alla fine degli anni ’80, imponendo una sconfitta dopo l’altra alla classe operaia e alla sinistra di tutta l’Europa.

Nel 2007/8 c’è un drammatico aggravamento della crisi, in cui reggono i forti che anzi diventano più ricchi, ma grazie al fatto che il danaro pubblico viene dato alle Banche per salvarsi, non più, a vitali settori pubblici, come, per dirne una, al sistema sanitario. Una crisi storica che mette in crisi anche la globalizzazione, la multilateralità ormai definita “a bassa profondità”. La crisi resuscita vecchi conflitti regionali, acuisce una competizione selvaggia, le guerre scoppiano anche per via di 17 materie prime preziose senza delle quali un paese moderno non può più sopravvivere, “la guerra mondiale” torna alla grande, sia pure, come dice papa Francesco, “a pezzetti”.

Senza parlare di quanto potrà inevitabilmente provocare ovunque l’ulteriore sviluppo delle nuove tecnologie, quelle che potrebbero rendere l’umanità felice ma che, se il sistema resta così’, produrrà invece nuova e feroce disuguaglianza. Solo un esempio indicativo: lo sviluppo tecnologico per tutto il XX secolo ha ridotto il lavoro tradizionale del 15 %, poco. Alla fine del secolo presente lo ridurrà - ci dicono gli scienziati – del 75 per cento. Due cifre che ci dicono che a quel punto ci sarà un 25 % di ricchi e molto istruiti che dominerà tutto con i loro algoritmi e sotto di loro si produrrà una grande aerea di servitori: badanti, riders che gli portano a casa la prima colazione, che aiutano il nonno malato a fare i suoi bisogni, a spazzare. Capite bene che salvare i diritti umani e quelli dell’umanità sarà quasi impossibile, il mondo essendo diventato a quel punto un immenso campo di servitori. A quel punto sarà infatti necessario ridefinirne tutti i principi. Faccio solo un esempio: basta ancora parlare di diritto alla scuola pensando ai giovani che devono avere il diritto di accedere all’università, quando al ritmo attuale dello sviluppo tecnologico se non c’è anche il diritto a studiare durante tutto l’arco della vita – una sorta di decuplicate 150 ore e cioè di una obbligatoria alternanza scuola-lavoro e non dunque solo della famosa laurea una volta per tutte - tutti i diritti all’istruzione saranno nel giro di un decennio obsoleti?

Scusate se in un’occasione come questa ho riraccontato quello che ha dato inizio alla crisi di sistema. L’ho fatto per due ragioni: la prima è che della gravità di quel che avvenne nel 1970 la “politica” non si accorse quasi così come delle sue conseguenze, qualcosa che è ancora vero oggi, quando si continua a parlare del che fare senza rendersi conto che per fare cose sensate c’è bisogno di essere consapevoli del dramma climatico che si aggrava ogni momento e che se non si cambia il sistema stesso non sarà più pensabile tornare a quello che un grande storico inglese, Hobsbown, ha chiamato ”il trentennio felice”. I diritti cambiano in questo contesto e se si vuole tener testa a quanto avverrà - basti pensare all’intelligenza artificiale e alle cose utili che potrebbe regalarci, ma ancor più agli enormi rischi che ne potranno discendere – bisognerà prendere atto della necessità di un pensiero del tutto nuovo. Non comporta anche solo questo l’urgenza di ripensare tutto il sistema dei diritti, e delle organizzazioni create per proteggerli?

È molto difficile e sono contenta che all’Università si studi la materia. La parola “globalizzazione” fra l’altro ha prodotti molti danni perché è stata regolata a Davos, dove si tiene il World economic forum, dove si incontrano e decidono tutto i banchieri e i gruppi finanziari transnazionali. Perché non cominciare a rivendicare che siano presenti anche le organizzazioni dell’ONU?

Vale anche per il diritto internazionale perché quello che avrebbe dovuto essere cooperazione in un mondo senza frontiere ha prodotto il massimo di spaccature e squilibri, a cominciare da come è ripartita la ricchezza. Ce lo dice ogni anno un organismo dell’ONU, il Development Program: l ’ultimo dato, 47% del reddito mondiale per 225 soggetti, il resto da dividersi fra miliardi di persone.

Il fatto è che l’Onu è stata chiamata a battersi soprattutto contro il pericolo delle dittature, e oggi diventa chiaro che la dittatura più crudele è quella esercitata dal mercato. E la giusta rivendicazione che la sfera dei diritti debba essere autonoma dall’economia rischia di essere solo un modo per lasciare il mercato libero di determinare la nostra esistenza.

Tutto questo mette in pericolo non solo i diritti ma la democrazia stessa da cui dipendono, la sua sopravvivenza come forma di rappresentanza dei cittadini, e perciò il pluralismo. E’ proprio questo, non tanto i diritti in sé, che la globalizzazione ha messo in crisi, perché la democrazia presuppone che gli interessi e i bisogni dei cittadini siano tenuti in conto e che le norme che lo garantiscono siano definite attraverso processi deliberativi ai quali tutti possano partecipare in uguale misura, un sistema reso possibile - dice Habermas - da un reale ascolto della società. Non fondarsi su un’idea liberale che tiene conto solo di un individuo isolato. Principi che restano astratti se non vengono tradotti in istituzioni giuridiche ma anche in pratiche sociali che consentano una sovranità paritetica che si può aver solo se sono vive le sotto- comunità, partiti, sindacati, e ogni altra forma di democrazia organizzata cui è possibile dar vita. Proprio di questa rete che attenuava le disuguaglianze più gravi (Vedi Petrucciani...) e che oggi si è così drammaticamente svuotata di efficacia da facilitare il trasferimento di quote di potere sociale verso gli agenti più forti sul mercato (Vedi Colin Crouch...). Proprio la crisi della democrazia rende esplosiva la contraddizione fra principi universalisti e l’esistenza di un sistema statale fondato sull’iniziativa individuale a difesa dei propri interessi. In buona sostanza è il capitalismo che, con la sua delega al governo reale del mercato, porta all’erosione di ogni effettiva partecipazione politica universalista.

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Tanto più grave appare questo problema se alla disuguaglianza sociale si aggiunge quella geopolitica che mette subito in luce la enorme disparità di potere di chi ha fino ad oggi goduto del monopolio del potere di disegnare norme niente affatto universalistiche all’insieme di un mondo solcato da enormi differenze storico culturali, così appropriandosi del monopolio di disegnare codici di democrazia che dovrebbero andare bene per tutti e invece non è così perché la maggioranza dell’umanità non ha avuto la possibilità di contribuire alla loro definizione.

Come sappiamo bene, invece, questa usurpazione è stata resa possibile dall’idea radicata nell’occidente di rappresentare il punto d’arrivo della civilizzazione cui tutti dovrebbero giungere. Come dice il titolo di un libro di Amarthia Sen – “La democrazia degli altri” – non c’è una democrazia cosmopolita, l’idea stessa di un parlamento mondiale è folle. Si tratta invece di innescare e favorire processi lunghi, fatti di dialogo e di impegno a conoscersi, a caricarsi dei problemi dell’altro, del riconoscimento che spetta a tutti di esser portatore di un contributo ad una definizione realmente universalistica. Mi domando se oggi non sia questo il primo e più importante dovere di chi ha a cuore l’affermazione di diritti che tutti devono

aver potuto contribuire a definire. E che occorra partire da qui per ridisegnare l’intero sistema delle Nazioni Unite per come, sin dall’inizio, è stato pensato. Un impegno che ha come premessa, una critica dura al passato, e l’aggiustamento del concetto stesso di universalismo.

Un processo lunghissimo e difficile, reso oggi anche più difficile che nel passato perché la globalizzazione ha scompaginato le antiche frontiere in modo confuso, del resto già erose dal mercato .Pensiamo solo alle migrazioni che feriscono la appartenenza alla comunità di nascita sovrapponendovi quella del pezzo di terra in cui sono approdati, una dislocazione che suscita sentimenti molto contraddittori, un legame accresciuto con la propria cultura originaria in nome di una nostalgia che risveglia ancora sacrosanti rancori . E insieme però il disagio che comporta l’adattarsi a culture estranee.

È una problematica che ha risvolti pratici immediati e affrontarla dovrebbe oggi essere una priorità: la definizione del diritto di cittadinanza è possibile ancora oggi che in un mondo in cui merci e capitale circolano attraverso tutto il globo, gli umani – ma solo quelli poveri – siano privati di questo stesso diritto? È pensabile trattare questo problema senza prendere atto che il cittadino della nostra era non è più – come ebbe a dire Jaques Attali, collaboratore di Mitterand – “lo zappatore ma il nomade”? E che dunque tutto il delicato problema del diritto alla cittadinanza dovrebbe esser rivisto in questa ottica, dovrebbe cioè portare a prendere atto che il migrante acquisisce una cultura pluralistica più ricca di quella di chi non si è mai mosso dal proprio quartiere e ben lontana da quella localista di tutti coloro che stanno legiferando in Europa, e non solo?

Oggi questo scenario si aggrava, perché nella crisi economica e ambientale si acuiscono le differenze e gli squilibri di potere che ne derivano, e da per tutto cresce l’insofferenza nei confronti dell’arrogante occidente che ha fin qui preteso di esercitare la sua dittatura su 3⁄4 dell’umanità; in cui si moltiplica la competizione per conservare le risorse rese sempre più limitate dalla depredazione della natura che attraverso i millenni si è verificata, e che ora sta prospettando il pericolo mai stato cosi grande di una deflagrazione bellica senza precedenti.

In questo contesto la difesa di qualcosa come il sistema ONU diventa insieme più urgente e necessario, e al tempo stesso più bisognoso di una revisione adeguata dei suoi principi costitutivi. In questo quadro il problema della cultura deve essere preminente, perché assai pericoloso è che venga affrontato nell’ottica miope di un rigido rispetto delle diversità culturali, anziché in quella di conferire a tutti il potere di affermarle affinché si confrontino, si inneschino, si impegnino a definire un vero universalismo.

Debbo in merito fare una autocritica. Di questo diritto mi sono dovuta occupare per molti anni in prima persona in quanto presidente della Commissione culturale del Parlamento europeo; ma ancora di più quando sono stata presidente della Commissione Relazioni Economiche esterne (detta REX) perché alla fine, dopo che a quella della cultura si era molto teorizzato, i veri nodi da sciogliere sono stati quelli del mercato. A cominciare

dalla discussione se la cultura sia o meno una merce come un’altra, o si debba parlare di “eccezione culturale” come alla fine è avvenuto in una fatidica sessione dell’Organizzazione mondiale del Commercio che non vi racconto perché andrei troppo per le lunghe, tanto drammatica, comunque, da indurre il presidente Mitterand ad accusare gli Stati Uniti “di genocidio culturale”. Dalla parte di chi considera un film diverso da un paio di blue- jeans, lottammo a lungo per ottenere dall’Unesco, allora diretto dallo spagnolo Federico Major, fortemente appoggiato dall’allora segretario generale dell’ONU, il peruviano Javier Perez de Cuelliar, di dar vita a una Convenzione che introducesse il diritto alla diversità culturale. Seguì un tormentoso processo di cui in Italia ci si occupò poco a differenza di quanto accadde in Francia dove assai più che da noi tengono alla loro cultura (per questo sono sicura che pochi di voi ne conoscano le vicende).

La questione era venuta alla ribalta in seguito alla scoperta che alla fine degli anni ’80, l’85 % del mercato audiovisivo europeo era ormai occupato dalla produzione hollywoodiana. Dopo una lunga battaglia nel 2001 si arriva finalmente ad ottenere che i diritti culturali vengano inclusi come parte integrante dei diritti umani. E’ solo nel 2005 che all’Assemblea generale dell’Unesco viene varata la “Convenzione per la protezione e la promozione delle diverse espressioni culturali”: 35 articoli e un allegato, che devono esser ratificati dai parlamenti degli stati membri. Alla seduta finale si registrano 196 voti a favore e due contrari. Quali? Quello degli Stati Uniti e quello di Israele. (se vi interessa l’intera storia mi permetto di indicarvi che ho scritto, quando per 4 anni sono stata professore a contratto all’Università di Pisa, un libro che la racconta tutta: “EuroHollywood”, Edizioni ETS, Pisa, 2008.)

E vengo alla mia autocritica, che parte da alcune considerazioni sul come sia stata interpretata questa Convenzione nei fatti: ognuno ha diritto di consumare la propria cultura, nessun cenno all’importanza di conoscere quella dell’altro. Se andate a vedere, del resto, come si applica nei comuni italiani più affollati di migranti stranieri, vedrete che dipende da come è il/la sindaca: se è razzista ve lo immaginate, se è buona/o ai suoi nuovi cittadini dice: anche se sei negro in fin dei conti sei un umano come noi, perciò diventa pure italiano; se sei ancora più buono gli dice, sì ,avete il diritto alla diversità culturale e perciò vi costruisco una bella moschea dove potete esercitare in pace la vostra cultura. Insomma: vi do un giardino dove potete esercitare l’autoconsumo della vostra cultura. Come se si trattasse di una specie di pomodori.

Io ho nel frattempo i capito che ci dovremmo invece impegnare a fare approvare una Convenzione che stabilisca Il dovere di conoscere la cultura degli altri. Perché, come diceva Eduard Said, il grande sociologo palestinese costretto all’esilio negli stati Uniti, “la cultura dell’altro è una grande risorsa critica per noi stessi”. Preziosa per poter raggiungere un giorno un universalismo vero.

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Infine, se me lo consentite, una richiesta: di approfondire due temi che mi stanno a cuore e che tuttavia non sono mai diventati diritti né umani né dell’umanità; e che però tali in qualche modo dovrebbero esser trattati. Questi:

1) Da tempo discutiamo di beni comuni come di una possibilità da introdurre nel nostro sistema, e cioè di far diventare beni non privatizzabili alcuni beni essenziali. Per esempio, l’acqua, ma anche molto altro. Comune vuol dire però non privato ma neppure statale, vale a dire non da dare, o ridare alla pubblica amministrazione. Io credo si debba lavorare per creare un quadro giuridico ai beni comuni, e cioè inventarsi una nuova forma di democrazia organizzata per questa forma di gestione diretta di un pezzo essenziale del patrimonio dell’umanità.

Prendo il caso dell’acqua. Come ricordate per combattere la sua privatizzazione anni fa abbiamo fatto un referendum, fu molto partecipata e lo vincemmo. Poi tutti andarono a casa e l’acqua, di fatto, una volta tornata nelle mani dell’amministrazione pubblica è nuovamente finita in quelle private, in tante forme che ora non sto qui a descrivervi. (Si


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pensi che alcune municipalità sono persino riuscite a fare accordi con l’ignobile società israeliana che si è impadronita dell’acqua della Cisgiordania rifiutandosi poi di dare acqua ai palestinesi). Il movimento che ha lottato per impedire la privatizzazione avrebbe dovuto anziché andare a casa consolidarsi, e imparare a gestire, la distribuzione di questo bene prezioso, non passandolo ai comuni. Con quali poteri? Come? Non bisognerebbe cominciare a sperimentare qualcosa di simile a quanto proponeva Rosa Luxemburg, e Antonio Gramsci, e cioè forme di democrazia diretta da intrecciare con quelle di democrazia delegata? E cioè “consigli”. Non se ne è nemmeno cominciato a discutere. Fatto sta che tutti continuano a parlare di beni comuni, a livello accademico e dei movimenti, ma nessuno lavora a definire una proposta;

2) Un’altra questione che mi sta particolarmente a cuore quella che riguarda le donne.

Non entro nei dettagli molteplici della questione di genere. Vorrei solo che si prendesse atto che l’intera nostra legislazione, e anche la regolamentazione della società, va tutta rivista. Perché, in tutto il mondo, è fondata su un imbroglio. Un grande imbroglio: che esista un essere umano neutro. Come sapete bambini neutri non ne nascono: esistono bambine femmine, bambini maschi, bambini/e che solo crescendo hanno capito la loro differenza sessuale. L’imbroglio consiste nel fatto che il cittadino neutro di cui si occupano i codici, e anche la nostra altrimenti magnifica Costituzione, non esiste, ma esiste in quanto alle donne è stata cucita addosso un’identità che non è la loro, bensì è quella maschile, mascherata da neutra. E la donna ha subito questa arroganza, anche perché non è stata mai libera di definire sé stessa altrimenti che “un po’ meno del maschio”. “Diventare donna – ha scritto una volta Simone De Beauvoir - è (infatti) il lavoro di tutta una vita”. Per questo sono stati così importanti all’inizio del nuovo femminismo i gruppi di autocoscienza messi su dal movimento e che tanto irritarono gli uomini che non capirono che erano in realtà una indispensabile inchiesta su sé stesse, la ricerca di cosa voleva dire realmente essere donne.

Ecco: chiederei a tutti quelli che si occupano di diritti umani di smettere di affrontare la questione di genere in termini di parità di genere e di aiutare invece a denunciare l’imbroglio del neutro. E da qui rivedere tutte le leggi e le regole del mondo.

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Chiederei a tutti quelli che si battono per i diritti umani e dell’umanità di tener presente quanto in poche righe ha riassunto Tommaso Greco, nel suo ultimo libro: “Curare il mondo con Simone Weil”:

“La giustizia ha bisogno dello sguardo, e lo sguardo può essere esercitato solo se si è allenati alla pratica della facoltà di attenzione. Giusto è chi cerca costantemente il volto di colui che ha bisogno”.

Grazie 

Luciana Castellina


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