«Ho proposto alla Fondazione intitolata a mio padre, animatrice di un premio giornalistico, che il prossimo sia l’ultimo», dice Claudio Fava, giornalista, scrittore, ex presidente della Commissione regionale antimafia. «Perché persino un premio può diventare una liturgia, un abbellimento della memoria». Il 5 gennaio, saranno trascorsi quarant’anni dall’omicidio di Giuseppe Fava, il fondatore del periodico “I Siciliani”, il protagonista di tante coraggiose inchieste sul potere in Sicilia.
Qualche tempo fa, ha detto: «Bisogna avere il coraggio di seppellire i nostri morti». Qualcuno polemizzò, l’antimafia sembra ancora impantanata. Come se ne esce?
«Io penso di averlo sepolto mio padre, nel senso buono.
Quando disse che è venuto il tempo di seppellire i nostri morti, il padre dell’agente Agostino rispose a muro duro che non era d’accordo: «Perché non ho ancora la verità sulla morte di mio figlio e di mia nuora», dichiarò.
«Nemmeno io ho la verità sulla morte di mio padre. Al netto di tutto il corredo di condanne definitive che ci sono state, veramente pensiamo che Giuseppe Fava sia stato ammazzato dal capriccio di Nitto Santapaola al quale mio padre non aveva dedicato una sola riga? È chiaro che Santapaola ha agito come risolutore di problemi, per conto di un mondo che si sentiva minacciato. Se poi quel mondo ha manifestato la sua volontà attraverso le parole di un cavaliere del lavoro piuttosto che di un altro rischia davvero di essere solo un dettaglio. Era un mondo profondamente corrotto, in cui l’elenco di quelli che hanno brindato alla morte di mio padre è di certo più lungo di quelli che sono stati poi i mandanti operativi. Un elenco in cui c’erano magistrati, avvocati, professionisti, imprenditori, alcuni giornalisti: si sono tolti dalle scatole un rompicoglioni».
Come continua a cercare la verità sulla morte di suo padre?
«La verità va indagata in modo nuovo, non esistono solo le aule di giustizia. E va cercata per tante morti, solo capendo il passato potremo organizzare il presente e il futuro».
Da presidente dell’antimafia si è trasformato in drammaturgo, portando in teatro la sua relazione sul depistaggio di via D’Amelio.
«Dobbiamo continuare a indagare su quel depistaggio. Io ho deciso di chiudere con la politica e di aprire una scuola di scrittura, si chiama “Itaca”: chi ha talento per le parole e il giornalismo non deve fare le valigie.
Faremo venire in Sicilia scrittori di valore. Perché credo che il mestiere di scrivere sia una delle eredità che abbiamo ricevuto dai nostri morti.
Insegnare la scrittura è un modo per rendere onore a mio padre».
Da bambino quando si accorse del mestiere di suo padre?
«Era un tempo in cui la scrittura la sentivi come una parte naturale di quel genitore. Mio padre stava nel suo studio con la macchina da scrivere che ticchettava per tre ore al giorno, poi telefonava agli stenografi per dettare i pezzi ai giornali di Torino, di Milano. E la scrittura prendeva forma. Era suono, ma anche olfatto, sentivo il sapore dell’inchiostro, dei pezzi di carta».
Come è stato lavorare con suo padre?
«Lo devo ringraziare perché mi ha fatto sentire la nostra condizione di padre e figlio mai come una opportunità, una tutela, ma come un sollecito quotidiano. Mi ha trattato come gli altri, anzi peggio. Mi affidava le cose più complicate: a 23 anni, mi sono ritrovato a fare il caposervizio di nera al Giornale del Sud, in una città in cui ammazzavano 100 persone all’anno. Non era il regalo di un padre al figlio, era un atto di fiducia che ti metteva alla prova sul campo.
Vediamo come uno studente universitario che non ha mai visto neanche un ginocchio sbucciato si trova a misurarsi con il dolore che sta dietro quelle morti, con il contesto in cui quelle morti maturavano».
Quant’è concreto il rischio che in Sicilia la mafia si riorganizzi dopo i colpi ricevuti?
«La mafia è parola complicata, opaca, dentro la quale ci stanno tante cose: famiglie che portano gli stessi cognomi da quattro generazioni; ma anche intrecci di potere robusti, ieri come oggi. Io penso che la mafia continui a governare un pezzo del sistema economico finanziario di una città come Catania. Non con l’arroganza e la trasversalità che aveva 40 anni fa, ma un pezzo dell’economia passa ancora attraverso gli interessi mafiosi e un pezzo dell’economia mafiosa passa attraverso la benevolenza di una certa imprenditoria disponibile.
Abbiamo scoperto che il presidente di Confindustria pagava il pizzo in silenzio da 20 anni e con lui i maggiori commercianti della città». Quanto manca oggi il giornalismo dei “Siciliani”?
«Oggi vedo tanti ragazzi, spesso precari, che sono l’eredità civile di quella redazione. Rispetto a quei tempi, manca forse il senso dell’avventura, la costruzione della scrittura e della notizia che aveva forme di ricerca e tempi di elaborazione più artigianali. E quindi anche più divertenti. Ma oggi giornalisti capaci di tenere la schiena dritta ce ne sono tanti, più di quelli che c’erano allora. Manca invece purtroppo una editoria del tutto indipendente».
Qual è l’eredità di Giuseppe Fava?
«Occorrere recuperare il senso civile del dubbio sui nostri morti e su tante altre questioni. Ad esempio, ci si indigna per il ritorno in politica di Totò Cuffaro, ma nella politica siciliana sono impegnati personaggi infinitamente più compromessi che non hanno mai pagato. Di questi scriverebbe oggi mio padre».
La Repubblica Palermo, 31 dic 2023
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