di Mario Di Caro
“I leoni di Sicilia” insistono sul tema dei commercianti venuti dal nulla che conquistano Palermo ma senza il passaporto per l’alta società. Il capostipite Paolo è un Sedara che ramazza il suo negozio e sfida l’immobilismo
Il peccato del fare a Palermo non è mai stato perdonato. Neanche nella prima metà dell’Ottocento quando una famiglia di calabresi a poco a poco si impadronì della città, dettò le nuove regole, aprì negozi, rilanciò tonnare, creò miniere, comprò nuovi macchinari, surclassò la concorrenza per poi soccorrerla con prestiti ad alto tasso di interesse. Troppo per non essere disprezzati da quel sentimento lento e abitudinario che è la palermitudine.
La serie tv “I leoni di Sicilia”, dopo il romanzo di Stefania Auci e dopo i saggi degli studiosi, sta svelando a mezzo mondo l’altra faccia dei Florio, quella delle prime generazioni, quella venuta dal nulla che si spaccava la schiena a lavorare, quella che “faceva”, appunto. E, come rimarca continuamente la regia di Paolo Genovese, quella etichettata dalla nobiltà parassita e indebitata come “pidocchi arrinisciuti” (di successo, diciamo), massima offesa degli snob di casa inchiodati alla propria visione. Insomma, siamo assai lontani dal mito dei Florio di cui la città si riempie la bocca da una vita e figlio della narrazione relativa alla coppia d’oro Ignazio-Franca allargata al Vincenzo inventore della Targa automobolistica.
E allora in questi primi episodi della serie tratta dal best seller di Auci, e ambientata in una Palermo-Trapani nella quale si passa con disinvoltura dalla sequenza con la chiesa di Santa Maria la Nova sullo sfondo al biancore della saline, i Florio vengono umiliati da baroni e baronesse insolventi, che disprezzano chi maneggia denaro, tanto da porre il divieto di sporcarsi le mani come condizione al matrimonio di una loro giovinetta con il rampantissimo Vincenzo Florio senior di Michele Riondino.
Altro che protagonisti della mondanità: i Florio formato televisivo vengono respinti dall’ideale cordone sociale dell’aristocrazia, a don Vincenzo-Riondino viene vietato l’accesso a un ricevimento nel quale voleva irrompere per reclamare la soddisfazione di un credito: denaro, orrore, vade retro Florio. La belle epoque può attendere, i modi e la classe non sono ancora quelli dei celebratissimi anni di donna Franca che riceveva le teste coronate, e il passaporto per l’alta società non si compra.
E così questa prima parte della serie accredita, con le dovute licenze televisive, una narrazione dei Florio che li vede come gli anti-Gattopardi, gente che vuole veramente cambiare il mondo, che rifiuta il sicilianissimo “tutto resti com’è” espresso dal principe di Salina. Vincenzo Florio - Riondino (che però tra baffi e basettoni richiama assai l’immagine iconica di Burt Lancaster nel film di Visconti) quando fa licenziare gli operai perché ha comprato una macchina che fa il loro lavoro dice che «la rivoluzione ha un prezzo». Mentre lo zio, Ignazio Florio-Paolo Briguglia, di fronte alle proteste degli altri commercianti battuti sul tempo dall’inarrestabile voglia di fare e dunque rancorosi dice loro che «c’è posto per tutti»: ovvero viva la concorrenza e il libero commercio e vinca il migliore.
E ancora, il capostipite Paolo Florio, alias Vinicio Marchioni, fiero dell’odore degli aromi della bottega che impregna i suoi vestiti come un marchio identitario della famiglia ( «perché questi siamo», mercanti) è un Calogero Sedara meglio vestito: uno partito dal basso, uno che ramazza un magazzino in rovina per trasformarlo nel negozio più prospero di Palermo, uno che fa le scarpe alla nobiltà scialacquona ma che non ha un’Angelica da usare come trampolino sociale con il primo Tancredi spiantato ma titolato. Don Paolo ha solo un figlio maschio Vincenzo, determinato quanto lui, anche un tantino cafone in certi atteggiamenti, che da adulto si porrà il problema di accasarsi con una qualunque blasonata disponibile per essere ammesso laddove si decidono i grandi affari. Leoni negli affari ma gattoni bastardi di fronte al muro gelido della nobiltà, ricca solo d’arroganza.
L’insulto, i Florio della tv, lo mettono nel conto, è un prezzo da pagare che al portafogli non costa niente, tanto la contropartita è un’attività che vale oro e che i baroni sono costretti a svendere.
Strozzini, in fondo, ma vincenti. E imprenditori, per giunta illuminati, una genìa in estinzione in Sicilia.
La Repubblica Palermo, 1 nov 2023
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