Giuseppe Di Vittorio, leader Cgil nel dopoguerra |
Dal primo stop del 1904 al divieto introdotto dal fascismo, fino alle parole di Di Vittorio all’Assemblea costituente: “Uno Stato democratico deve garantirlo”
ILARIA ROMEO
Il 4 settembre 1904 a Buggerru, comune situato sulla costa occidentale della Sardegna, i minatori si ribellano ai soprusi padronali e decidono di incrociare le braccia. I dirigenti della società francese che gestisce la miniera e le terre circostanti chiedono l’aiuto delle autorità piemontesi che mandano nell’isola due compagnie di fanteria. Il tragico bilancio finale sarà di tre (secondo alcune fonti quattro) morti e decine di feriti. L’indignazione generale per l’accaduto porterà alla proclamazione del primo sciopero nazionale della nostra storia. Allo sciopero generale del 1904 seguiranno i grandi scioperi del 1911, del 1914, del 1919-1920. Poi lo sciopero diventa reato.
La legge 563 del 3 aprile 1926, riconoscendo giuridicamente il solo sindacato fascista, istituirà una speciale magistratura per la risoluzione delle controversie di lavoro, cancellando il diritto di sciopero. Con l’entrata in vigore del Codice Rocco lo sciopero verrà non solo bandito, ma considerato reato - in diverse fattispecie - tra i delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio.
Per più di un decennio il termine “sciopero” scompare dalle cronache italiane, per ricomparire prepotentemente nel marzo 1943 e poi ancora, e sempre di più, nei due anni successivi. Il 5 marzo 1943 gli operai della Fiat Mirafiori di Torino fermano le macchine. Rivendicano il pagamento per tutti dell’indennità di sfollamento e quella per il carovita, ma invocano anche la fine della guerra al grido “vogliamo vivere in pace”.
È la miccia che dà fuoco alla grande ribellione operaia in tutte le fabbriche del Nord, passata alla storia come “il primo atto di resistenza di massa di un popolo assoggettato a un regime fascista autoctono”, nella definizione che degli scioperi del marzo 1943 darà lo storico inglese Tim Mason.
È la resurrezione come massa della classe operaia dopo più di vent’anni di oppressione, una rinascita che pone le basi di quella nuova unità delle grandi correnti sindacali storiche poi sancita dal Patto di Roma del 1944. È la Resistenza. E la Resistenza la iniziano i lavoratori e loro la concludono, occupando le fabbriche due anni dopo alla vigilia del 25 aprile 1945. Insorgendo, scioperando nuovamente nel marzo 1944.
La Costituzione repubblicana sarà promulgata il 27 dicembre 1947 ed entrerà in vigore il 1° gennaio 1948. “Il diritto di sciopero - sancisce l’art. 40 della Carta fondamentale - si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Perché lo sciopero è un diritto. Perché lo sciopero è, quando occorre e quando è necessario, un dovere.
“Le libertà sindacali, che si riassumono nella piena libertà di riunione, di discussione, di manifestazione, di astensione dal lavoro - affermava Giuseppe Di Vittorio all’Assemblea costituente - comportano il diritto di sciopero. Se si toglie a questi lavoratori il diritto di sciopero, quale altro mezzo veramente efficace rimane loro per far valere i propri diritti? È attraverso lo sciopero che i lavoratori, poveri e deboli isolatamente, affermano la propria potenza e l’indispensabilità della loro funzione sociale”.
Per l’allora segretario generale della Cgil “il divieto di sciopero, per qualsiasi categoria di lavoratori, è una mutilazione della personalità; è incompatibile col principio della libertà del cittadino, e si riallaccia piuttosto a quello del lavoro forzato, che presuppone una condanna. Il divieto di sciopero in qualsiasi servizio, infine, formerebbe categorie di cittadini minorati, privati di determinati diritti, che sono riconosciuti ad altri cittadini”.
Di Vittorio affermava, dunque, che “uno Stato democratico ha il dovere di riconoscere e di garantire il diritto di sciopero a tutti i lavoratori, senza nessuna eccezione. L’affermazione di questo principio non può significare, per altro, che non si debba tener conto delle obiezioni cui abbiamo accennato. Dato il fatto che lo sciopero in un servizio pubblico può danneggiare un gran numero di persone estranee alla vertenza, occorre una remora che ne freni l’uso e ne eviti gli abusi. Ma questa remora non può consistere nel diniego d’un diritto incontestabile, bensì nella coscienza civica degli stessi lavoratori dei servizi pubblici i quali sono consapevoli delle conseguenze particolarmente gravi del loro sciopero”.
Un’altra remora spontanea, concludeva il leader Cgil, è costituita “dall’interesse che hanno i lavoratori di altre branche di lavoro di evitarne gli abusi (dato che sarebbero fra i danneggiati) e che sono rappresentati dalla stessa organizzazione sindacale intercategoriale. L’efficacia di queste remore libere e spontanee è comprovata dal fatto che la Confederazione generale italiana del lavoro ha sancito spontaneamente nel proprio statuto sociale - approvato all’unanimità dal suo primo congresso nazionale - il principio che lo sciopero nei servizi pubblici sia da evitare in tutta la misura del possibile e che comunque vi si possa far ricorso soltanto dopo aver esperito invano tutti i tentativi di conciliazione e previa autorizzazione del Comitato direttivo confederale; cioè, della suprema direzione della Confederazione generale italiana del lavoro. Questa remora, oltre che la sola possibile, in un regime democratico, è anche la sola efficace”.
Ministro, dobbiamo aggiungere altro?
Collettiva.it, 15/11/2023
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