PASQUALE HAMEL
Sessantacinque anni fa dalla “guerra” tra le correnti della Dc emerge il ruolo atipico del conservatore che in nome dell’autonomia viene sostenuto da destra e sinistra. Una stagione osannata e criticata
È la tarda serata del 23 ottobre 1958 quando, dopo la lunga crisi seguita alle dimissioni forzate del presidente Giuseppe La Loggia, il voto dell’Assemblea regionale siciliana indica, come suo successore, il democristiano calatino Silvio Milazzo, più volte assessore regionale, notoriamente vicino a don Luigi Sturzo, dal quale sarà successivamente sconfessato, e all’ex presidente del consiglio, Mario Scelba. Milazzo non è il candidato del partito di maggioranza, la cui segretaria retta da Nino Gullotti aveva designato il catanese Barbaro Lo Giudice, è invece, lo insinua sulla Stampa Francesco Rosso, «la risposta dell’Assemblea alla scorrettezza della segreteria politica democristiana».
E che sia un voto di protesta è dimostrato dalla provenienza dei voti che convergono sul vecchio notabile democristiano. Fra quei 54 voti, che decidono l’elezione, ci sono infatti quelli delle minoranze presenti in Aula ma ce ne sono anche molti provenienti dalle stesse fila democristiane e, segnatamente, di quelli che apparivano insofferenti alla conduzione politica di Amintore Fanfani, segretario nazionale della Dc. La sorpresa per quel voto d’Aula non fu, tuttavia, l’unica. Si erano già verificati dei casi di scelte contraddittorie rispetto a quelle indicate del partito che, magari, nel torno di qualche giorno si erano ricomposte con la rinuncia dell’eletto.Come scrive Baget Bozzo, si immaginava, infatti che, la crisi aperta con l’elezione di Milazzo, si sarebbe risolta come già in altre occasioni con la mediazione del partito. La sorpresa maggiore arriva dalle parole del presidente eletto il quale, dopo aver ringraziato della «profonda e ripetuta fiducia» più volte espressa nei suoi confronti dall’Ars, aggiunge «il partito al quale mi onoro di appartenere non potrà non essere lieto della chiamata riservata ad un suo iscritto». Sono parole chiare, inequivocabili, Silvio Milazzo non ha alcuna intenzione di dimettersi ed anzi pretende la solidarietà e l’appoggio del partito al quale “si onora” di appartenere. Milazzo, che si rende anche conto della strumentalità ed eterogeneità di quel voto – lo hanno votato democristiani, comunisti, socialisti ma, anche, rappresentanti della destra – nei giorni che seguono l’elezione tenta di ricucire con il suo partito, chiedendo aiuto a don Luigi Sturzo e a quella parte della Dc alla quale faceva riferimento, ma trova le porte sbarrate. Il partito, che con fatica ha costruito il segretario nazionale Fanfani, non può cedere a meno di compromettere il progetto politico in corso. L’unica concessione che riesce a strappare è quella di rifiutare quel “guazzabuglio” di consensi che l’aveva portato alla presidenza, cioè di dimettersi accettando la promessa che sarebbe stato rieletto ma, questa volta, come candidato ufficiale del suo partito. Una promessa che non lo convince anche perché conosce bene le logiche del partito, è al corrente degli intrighi e dei tradimenti, ricorda bene come era stato liquidato De Gasperi nel non lontano 1953.
A spingerlo nella decisione di proseguire sulla strada della rottura è anche quella parte dei democristiani che lo hanno votato per fare uno sgarbo alla segreteria fanfaniana, soprattutto il giovane e ambizioso avvocato Ludovico Corrao, che diviene il personaggio politico chiave del milazzismo. Alla fine, dopo pensamenti e ripensamenti, Milazzo decide di proseguire sulla strada tracciata dal voto del 23 ottobre. Tuttavia, rendendosi conto della difficoltà di giustificare una maggioranza tanto eterogenea, tenta di spoliticizzare il suo governo ricorrendo alla formula dello stato di necessità. «Il governo di cui oggi ha bisogno la Sicilia – dichiara con una certa sofferenza - è un governo di amministrazione, specialmente in vista delle prossime consultazioni elettorali, le provinciali e le regionali». Un governo d’amministrazione per risolvere alcuni importanti problemi rimasti sul tappeto a cominciare dalla controversa questione dei rapporti Stato-Regione per arrivare all’annosa vicenda dello sviluppo industriale dell’isola sulla quale si era particolarmente impegnato, con una scelta che non era piaciuta agli industriali siciliani, il suo predecessore La Loggia.
«Milazzo, racconta Giovanni Ciancimino, sostiene che non bisogna andare nella capitale con il cappello in mano ma a rivendicare con forza e battendo i pugni sul tavolo i diritti della Sicilia» e proprio per questo motivo invita la politica siciliana a finirla col muro del pianto. Un programma minimo e amministrativo, come lo definiva il comunista Emanuele Macaluso, l’altro grande regista della vicenda milazziana, col quale si tentava di coprire o nobilitare quanto di effettivamente politico stava avvenendo. Con lo stile immaginifico che lo distingue, Francesco Cangialosi scrive che, con quell’operazione di bassa cucina politica, «sui torrioni di palazzo dei normanni, sede storica del Parlamento siciliano, si ammaina la bandiera dell’Autonomia, perché senza politica non può vivere né sopravvivere, e si innalzano i vessilli del populismo e dell’antipolitica, che – ieri come oggi – sempre più spesso nel nostro Paese riescono a calamitare consensi e compiacenze per l’incapacità delle forze politiche di soddisfare al meglio i bisogni della comunità».
Così Milazzo, il 31ottobre successivo, forma il proprio governo, nel quale il Pci – e ancora Giovanni Ciancimino a scriverlo - maschera la sua presenza con la partecipazione in giunta di Paolo D’Antoni, un ex prefetto, eletto deputato, come indipendente, nelle liste comuniste. Particolare interessante è che segretario di questo assessore è tale Ignazio Salvo, un personaggio che nel prosieguo degli anni farà molto parlare di sé, e non certo positivamente. Il risultato dell’operazione Milazzo risulta, alla fine, “un minestrone maleodorante”, come l’ebbe a definire il giornalista Giampiero Mughini.
La notizia della formazione del governo Milazzo, che trova eco perfino nella stampa internazionale, suscita, a livello di opinione pubblica regionale, manifestazioni di giubilo della gente. Ovunque si grida “Viva Milazzo!”, grida che esaltano il presidente facendone il vincitore della battaglia per il riscatto e la liberazione della Sicilia. Milazzo viene dipinto come in realtà non è e, cioè, come un ribelle al sistema di potere fino ad allora presente in Sicilia. Paradossalmente, però, il ribelle è solo una testa di legno, cioè il cavallo di Troia di cui si servono le forze d’opposizione per penetrare all’interno della fortezza del potere, mentre più verosimilmente è solo il prigioniero di taluni astutissimi e ambiziosissimi personaggi, fra i quali spicca il presidente della organizzazione degli industriali siciliani (Sicindustria), Domenico La Cavera, molto interessato a conquistare strumenti di potere finanziario, come la SOFIS, che il presidente La Loggia gli aveva negato.
Silvio Milazzo è, soprattutto, un conservatore, un esponente del vecchio ceto agrario, “un massaio rurale” come, bonariamente, l’indicava un esponente della destra come Giuseppe Seminara. Non per niente, cogliendo le sue ascendenze aristocratiche, dal giornalista Felice Chilanti venne definito «mezzo barone e mezzo villano». Dunque, un acerrimo nemico di quella sinistra che, ora, ironia della sorte, l’aveva eletto a suo eroe ed a suo condottiero. Proprio per queste contraddizioni il risultato dell’Operazione Milazzo fu alla fine fallimentare e segnò la chiusura di quel primo tempo, tutto sommato significativo, dell’Autonomia Regionale Siciliana. Dopo Milazzo si aprì infatti una lunga stagione segnata da incertezze, da duri confronti, da scontri, e soprattutto di scelte sbagliate che - nonostante gli sforzi encomiabili di uomini di valore come lo fu, l’uomo delle «carte in regola» (parlo del presidente Giuseppe D’Angelo) -, finirono per degradare indelebilmente l’immagine della istituzione regionale agli occhi della gente.
GdS, 23/10/2023
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