NINO DI SCLAFANI
All’indomani delle celebrazioni, più o meno sontuose e solenni, con cui la chiesa palermitana ha ricordato il 30° anniversario del martirio di Padre Pino Puglisi, dopo avere visto i social riempirsi del suo volto sorridente con qualche frase di rito condita da cuoricini & CO., devo, non voglio, ma devo, condividere qualche riflessione.
Quella chiesa che oggi inneggia al suo martire, che ha traslato in Cattedrale il suo corpo il 15 aprile 2013 (al netto di un pezzo di costola per farne un reliquiario) e poi lo ha beatificato il 15 maggio dello stesso anno al Foro Italico, avrà preso “definitivamente” le distanze dalla mafia e da quel vasto entourage di malaffare fatto di colletti bianchi, imprenditori, politici e via discorrendo? Leggendo gli atti del processo contro i Graviano, boss di Brancaccio mandanti dell’assassinio, appare evidente che trent’anni orsono Don Pino venne lasciato solo al suo destino.
Si disse che egli teneva per sé le minacce che aveva ricevuto; ma sette giorni prima della sua esecuzione chiese udienza al cardinale Pappalardo, udienza che fu rifiutata. E sì che Pappalardo è da annoverare come primo vescovo siciliano a prendere le distanze dalla mafia e a stigmatizzare le connivenze tra molti ambienti clericali con il potere mafioso. Cosa avrebbe voluto riferire don Pino al suo vescovo? E ancora: come mai la chiesa palermitana non si costituì parte civile al processo contro i Graviano? Come riportato dal PM Lorenzo Matassa che prese in carico le indagini e istruì il processo, perché mentre egli si trovava al Buccheri con il Medico legale che esaminava il corpo del sacerdote, un imbarazzatissimo Pappalardo insistette per entrare in quella stanza e, rivolgendosi al magistrato, affermò testualmente “Il popolo della Chiesa di Palermo vuole il suo martire. Domani di mattina alle 9 il corpo deve essere in cattedrale!” Pretendere un corpo senza vita dopo avere rifiutato di parlarci appena la settimana prima da vivo pare una contraddizione.E, infine, perché mai la mafia uccide un innocuo prete di borgata?
Beh, se don Pino si fosse limitato a celebrare belle messe cantate, calare Rosari con quattro vecchiette, qualche processione per i santi comandati (inchino incluso) e dedicato il suo protagonismo alle foto con bambini della prima comunione, don Pino oggi sarebbe vivo e vegeto a godersi la pensione e a leggere i suoi amati libri. Invece no. Con lui San Gaetano non è una “parrocchia castello con fossato” e ponte levatoio. La parrocchia non è dentro le mura, è fuori, tra la gente. Tra i bambini che tirano calci ad un vecchio pallone sgonfio, tra le donne che si sforzano di assicurare due pasti al giorno alle loro famiglie, tra i ragazzini che finite le elementari abbandonavano gli studi perché, allora, a Brancaccio non c’era una scuola media. E lui si metteva calmo e andava a chiedere, al sindaco, al provveditore, bussava ad ogni porta pur di dare a quei ragazzi una possibilità che non fosse quella di essere arruolati dalla cosca e mandati a rubare, spacciare o sparare. E poi, non si era mai visto un parrino che non voleva festeggiare i santi con processione, illuminazioni, fuochi d’artificio e cantante; certo passando sopra al fatto che gran parte delle confraternite erano in mano alla cosca, che con la festa si riciclavano i soldi sporchi e che, in fondo, era comodo fare un unico giro per riscuotere pizzo e offerta per il santo di turno. Ma lui insisteva, si era fissato di cambiare il futuro, di dare speranza, di applicare il Vangelo. Già il Vangelo, la buona notizia, il lieto annunzio da portare ai poveri; quello sì che è un’arma letale, il più pericoloso dei libri; è molto meglio, per buona pace di tutti che venga aperto solo il tempo di leggere quelle dieci righe durante la messa e poi subito chiuso, serrato, riposto in un cassetto, meglio se sotto chiave. Amen
Nino Di Sclafani
16 settembre 2023
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