Il generale Giuseppe Castellano stringe la mano al generale Dwight Eisenhower dopo la firma dell'armistizio
Pier Giorgio Ardeni economista
Ci sono date nella storia, come nella vita, che segnano delle biforcazioni, dei punti di non ritorno oltre il quale il cammino diviene irreversibile: l'8 settembre è uno di questi. Ottant'anni fa prese il via una nuova fase della guerra e se il fascismo sopravvisse, sotto nuove spoglie, per non sparire più, fu anche in ragione delle scelte e degli eventi che videro nell'8 settembre 1943 il loro momento "clou".
Quel giorno segnò, è vero, "l'inizio della Resistenza", ma se ciò accadde fu anche perché esso consentì l'instaurarsi di un governo fantoccio a cui Hitler mise a capo un Mussolini redivivo sottratto all'arresto sui territori controllati dall'esercito nazista – come aveva fatto in Ungheria, in Romania o in Ucraina – che chiamò a raccolta tutti quei fascisti che non avevano accettato che l'Italia e il suo governo avessero stipulato un armistizio con i nemici anglo-americani. Il 25 luglio 1943 era avvenuto il cambio al vertice, con una manovra di palazzo, certo motivata dal crescente disagio dei vertici dello Stato per come si stavano mettendo le cose, con gli anglo-americani già in Sicilia e i tedeschi in casa. Pietro Badoglio, su incarico del re, prende in mano le redini del governo e da subito inizia a tramare per arrivare a un accordo con il nemico.
Quando l'Armistizio – firmato in segreto il 3 settembre – viene reso noto l'8 settembre dal suo laconico comunicato radio, esso non segna, come inizialmente viene lasciato intendere, la fine della guerra, ma l'inizio di un'altra guerra perfino più spietata, contro i tedeschi sul suolo italiano.Quella negoziazione, è noto, avvenne senza che dai vertici militari venissero date direttive ai reparti su come comportarsi, lasciando un esercito allo sbaraglio: quel tragico e caotico «tutti a casa» non fu per tutti, purtroppo, e 650mila soldati italiani vennero deportati in Germania. Un comportamento vergognoso e ignavo, che fu aggravato dal dileguarsi del governo e dei reali Savoia in fuga già dal 3 settembre – con il placet dei nazisti – alla chetichella alla volta di Ortona e poi di Brindisi. L'Italia si trovò così divisa in due: una parte piccola sotto l'ala dei nuovi alleati e la sua parte maggiore sotto l'egida nazista. Non era scritto che sarebbe dovuto nascere un nuovo governo sui territori occupati, non era scritto che la guerra sarebbe dovuta diventare civile. Ma i fascisti non l'accettarono e accorsero a sostenere Mussolini reinsediato nella dannunziana Salò a capo di una repubblica le cui milizie si rinfoltirono di migliaia di volontari fanatici e irriducibili pronti a morire per il duce – «i ragazzi di Salò» – contro quegli italiani che vi si opposero.
Alternative
Le cose avrebbero potuto andare diversamente. Un governo serio avrebbe forse potuto negoziare con Hitler e poi anche con gli anglo-americani un'uscita dell'Italia dal conflitto, se davvero avesse avuto a cuore l'inutile spargimento di sangue. Invece, la monarchia e i vertici corrotti dell'apparato trovarono protezione sotto i nuovi alleati, mentre i partiti antifascisti, e tutti i democratici d'Italia, si trovarono di fronte alla necessità di combattere contro i tedeschi occupanti e i loro alleati italiani fascisti. Nei territori occupati, lo Stato – con le sue milizie nere ora tutt'uno con quelle naziste – divenne il nemico da combattere e la Resistenza prese lentamente piede. Un sacrificio enorme, che si aggiungeva a quello di una guerra non voluta, venne così richiesto all'Italia: di prendere in mano il proprio destino, rifiutando di combattere a fianco dei fascisti (italiani) per liberarsi dai nazisti.
Quest'anno, l'ottantesima ricorrenza di questa data ci dovrebbe proporre più di una riflessione sulla memoria e come il nostro paese la elabori. Forse i media ne faranno menzione, ma non è detto che i rappresentanti del governo e anche gli altri politici sentiranno il dovere di esprimersi. Perché è una di quelle date "difficili", ancorché importanti, che avrebbe richiesto negli anni ben altro trattamento, oltre la retorica che infine prevalse di «aver fatto la guerra dalla parte giusta». L'8 settembre 1943 preparò, sul piano militare, una disfatta per l'esercito italiano pari solo a quella del 1917 a Caporetto, quando centinaia di migliaia di soldati erano caduti uccisi o in mano al nemico austro-tedesco. Il momento più basso di una parabola durata quasi ventuno anni di un regime che si era imposto grazie allo squadrismo, che aveva esercitato una dittatura, mandato in carcere e al confino gli oppositori, espulso gli ebrei dalle scuole e dalla vita pubblica, costretto a aderire al Partito unico per avere un posto. Un governo che aveva portato l'Italia in guerra a fianco di un regime totalitario e feroce che stava schiacciando l'Europa con la forza. Uno dei momenti più bui della storia d'Italia. E Badoglio è l'emblema del voltagabbana, dell'ignominia. Lui che era stato il Capo di Stato Maggiore in Etiopia e in Albania, in entrambi i casi macchiandosi di efferatezze e incapacità, diviene l'artefice del più clamoroso voltafaccia della nostra storia (in Italia c'è un paese che porta il suo nome, dove egli era nato – Grazzano Monferrato, il cui podestà lo modificò in Grazzano Badoglio nel 1939 – che nessuno ha mai ritenuto di cancellare).
La Repubblica sociale fu la manifestazione del fascismo nella sua forma più "pura", senza propositi "conservatori" e inter-classisti, ferocemente totalitario. Chiamò a raccolta i fautori del fascismo originario, nella sua variante filo-nazista. Che fu poi sconfitto militarmente, al prezzo del caro sangue di migliaia di italiani e italiane, ma che non accettò mai il verdetto della storia. E i suoi artefici sopravvissuti, da Almirante a Graziani, tornarono poi per raccoglierne i sopravvissuti, che si giovarono dell'ambiguo trattamento che il nuovo governo della Repubblica italiana riservò loro.
In tutti questi anni, l'8 settembre è stato ricordato sempre e solo come un neutro "armistizio" che vide «l'inizio della Resistenza», come se quel giorno le forze antifasciste si fossero messe attorno a un tavolo per combattere i tedeschi a fianco dei nuovi alleati. Da quel giorno, in realtà, ebbe luogo lo "smascheramento", perché furono i fascisti più convinti che poterono finalmente aderire alla loro nuova repubblica, sotto la feroce protezione nazista, contro chi vi si opponeva, mettendo in atto una guerra vile contro i civili e i resistenti armati.
La retorica resistenziale, nel corso del tempo, ha finito per offuscare il grave vulnus che ne fu all'origine. E la discriminante antifascista che per quasi cinquant'anni resse il "patto repubblicano" tra i partiti del cosiddetto "arco costituzionale" ha finito per essere gettata alle ortiche come orpello del "consociativismo" della Prima repubblica.
Vocazione autoritaria
La ferita, inferta da chi non riconobbe di aver promosso un regime fondato sulla violenza e il sopruso uscito infine sconfitto e subita in nome della rinascita da una popolazione che per la prima volta prendeva la storia sulle proprie spalle, non poté così mai giungere a sutura. Si lasciò che il fascismo restasse a covare come brace, riducendo in cenere la memoria delle lotte passate.
Quei conti che l'Italia non ha mai fatto – con le mancate epurazioni degli infiltrati nelle burocrazie e negli apparati, con le condanne amnistiate, con i reati rimasti impuniti – ha lasciato così che nel conservatorismo italiano continuasse ad annidarsi la vocazione autoritaria, legittimandola.
Così, oggi il paese ricorda un giorno di vergogna, che pure diede il via al riscatto, senza memoria, celebrando stoltamente l'essere passati dalla parte "giusta" e dimenticandosi del sacrificio dei suoi ragazzi che altro avevano nei loro sogni.
Se otto decenni dopo abbiamo al governo gli eredi diretti di quel movimento che già nel 1946 diede vita al partito degli ex repubblichini, è chiaro che qualcosa «è andato storto» nel modo in cui l'Italia ha superato il suo ventennio più nero e quei tristi diciotto mesi che presero il via l'8 settembre 1943.
Domani.it, 8 settembre 2023
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