di Irene Carmina
Il regista palermitano che ha presentato il suo nuovo film alla Mostra di Venezia parla di donne, eroine ed emancipazione C’è una simmetria fra il corpo violentato e la terra aggredita dalle ruspe La nostra città è stata sventrata e ci siamo assuefatti
Quando negli anni Novanta fu inviato a Sarajevo per documentare la guerra in Bosnia, lo scambiarono per una spia. Marco Amenta riuscì a salvarsi grazie all’aiuto di un mercenario francese e trovò rifugio in una fattoria. All’epoca il regista palermitano aveva poco più di vent’anni e faceva il fotoreporter per un’agenzia di stampa francese.
«Volevo raccontare la storia attraverso i miei scatti - dice Amenta dalla sua casa romana – Poi, non mi è bastato più e ho sentito l’urgenza di entrare nella mente delle persone, di portarne alla luce i pensieri, ed è arrivato il cinema».
Il suo nuovo film “Anna”, presentato alle Giornate degli autori della Mostra del cinema di Venezia, ha ricevuto una menzione speciale dalla Federazione italiana dei cineclub come «l’opera che meglio riflette l’autonomia creativa e la libertà espressiva dell’autore». È la storia di una donna, vittima in passato di violenza sessuale, che combatte per salvare la fattoria del padre e la sua terra, la Sardegna, dagli ecomostri.
È colpevole di alto tradimento, lo sa? «Scusi?».
Ha tradito l’Isola per un’altra isola, la Sardegna.
«Mi sono solo ispirato a due storie vere: quella di un anziano contadino sardo vittima di speculazione edilizia che si è ribellato attraverso le vie legali e quella di un’allevatrice laziale che ho raccontato in un mio precedente lavoro, “The lone girl”. Mi farò perdonare ambientando il prossimo film in Sicilia».
La violenza sulle donne da un lato, l’ambiente dall’altro: com’è riuscito a combinare i due temi?
«C’è una simmetria tra il corpo violentato e la terra violata. Le ruspe che dilaniano la terra sono simili alle mani che hanno ferito il corpo di Anna. Solo che, mentre in passato non ha avuto la forza di ribellarsi alla violenza sessuale, stavolta dice no e avvia una battaglia anche legale in difesa dell’ambiente».
Un po’ una Greta Thunberg sarda?
«Davide contro Golia, piuttosto. La battaglia di Anna non è ideologica: è una lotta viscerale per salvare se stessa affrontando i suoi fantasmi. La terra, dove se ne sta rintanata come un animale ferito, è l’unica che la protegge e lei decide di salvarla»
Anche la Sicilia è una terra martoriata dai reati ambientali. Facciamo troppo poco perproteggerla?
«Basta guardare Palermo: una città sventrata dal sacco edilizio degli anni Sessanta, danneggiata da sindaci mafiosi e, più in generale, da una politica collusa con la mafia. Le muraglie di cemento hanno fatto sparire il verde, i palazzi a tredici piani hanno sostituito le ville liberty. I palermitani si sono abituati».
Anche la violenza sulle donne è un problema che scuote l’Isola.
«Le donne devono avere il coraggio di denunciare e gli uomini devono appoggiarle, smettendola di giudicarle per come si vestono o per i loro comportamenti sessuali. La mia “Anna” è una donna con un forte erotismo, sessualmente libera».
Ha voluto lanciare un messaggio con il suo film?
«La mia montatrice francese dice che è un film femminista. Anche ne “La siciliana ribelle” ho raccontato la ribellione non solo contro la mafia ma anche contro il maschilismo. Di sicuro, l’emancipazione femminile è un tema che mi sta a cuore e l’ho capito da piccolo».
Come?
«La mia babysitter è stata Maria Di Carlo, un’attivista femminista.
Nessuno praticamente voleva affidarle i propri figli. A Corleone aveva denunciato il padre che la picchiava e che la teneva chiusa in casa. Questo fatto che, a molte famiglie palermitane anni fa doveva far paura, ai miei genitori parve una nota di merito».
Passa tutto dall’educazione familiare?
«Lì c’è il seme di ogni cosa. Se me ne sono andato da Palermo lo devo anche a mio padre».
Voleva che lasciasse l’Isola?
«Era un ginecologo e la sua carriera fu intralciata da giochi di potere e trame politiche. Rimase deluso dalla mancanza di meritocrazia e mi disse: “Almeno tu vattene e non farti schiacciare dai politici”. Partii per Parigi e ci rimasi dieci anni».
Fu la scelta giusta?
«Sì perché in Francia ebbi la possibilità di studiare cinema e fotografia e per pagarmi gli studi lavoravo come fotografo. A Palermo non esisteva ancora il Centro sperimentale di cinematografia, c’erano poche possibilità all’epoca».
Si ricorda la prima foto che le venne pubblicata?
«Riccardo Giordano, il campione sportivo, sul windsurf per strada in una Mondello allagata: finì in prima pagina. Fotografai anche i morti ammazzati dalla mafia e le vittime della guerra in Bosnia, tra cui due bambini uccisi dai cecchini».
Non deve essere stato facile…
«La macchina fotografica ti protegge. Devi testimoniare i fatti, non puoi farti sopraffare dalle emozioni».
Poi perché passò al cinema?
«Il cinema ha qualcosa in più della fotografia: ti permette di esplorare l’inconscio delle persone, e Michelangelo Antonioni e David Lynch sono dei maestri in tal senso. E poi mio nonno aveva un cinema a Sambuca di Sicilia: nella vita tutto torna. I primi passi li ho mossi come documentarista, poi sono arrivati i film».
Ora vive a Roma, pensa mai di trasferirsi in Sicilia?
«A Roma ormai ho la mia dimensione lavorativa, ma l’Isola oggi dà ai giovani possibilità che in passato non c’erano ed è per me da sempre fonte d’ispirazione: è una miniera di storie».
Ha raccontato anche la mafia nei suoi film. Ora che Matteo Messina Denaro è in fin di vita cambierà qualcosa?
«Il fatto che sia stato arrestato solo un anno fa, dopo trent’anni di latitanza, dimostra che la mafia è un’organizzazione solida che impedisce uno sviluppo sano della società. Non è vero che se non ci hai a che fare non ti rompe le scatole: siamo tutti vittime della mafia. Lo sono i bambini che non hanno impianti sportivi adeguati, lo sono gli studenti universitari guidati da docenti figli di o parenti di».
La Repubblica Palermo, 17/9/23
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