di BIANCA STANCANELLI
In una Palermo che giudica a volte “irredimibile” e a volte le fa aprire il cuore alla speranza, Franca De Mauro vive con amaro disincanto l’ennesimo anniversario della scomparsa di suo padre.
Cinquant’anni dopo – un tempo più lungo della vita stessa di Mauro De Mauro - nessuna verità ufficiale: né il nome di un mandante né di un esecutore. «È come se mi fossi abituata a convivere con questa mancanza di certezze. Eppure al processo sono emerse delle verità, ma non il nome di un colpevole». È una certezza, piuttosto, il depistaggio, il lavorio sistematico, fin dal primo momento, per intossicare le indagini, sviarle. «C’è stato un muro di gomma, come per Ustica».
Contro quel muro, la famiglia De Mauro ha combattuto invano: con Franca, la sorella minore Junia e la madre Elda, entrambe scomparse. E in quella guerra per la verità, la famiglia si è ritrovata spesso sola. «Anche persone che credevamo amiche, che frequentavano casa nostra si sono allontanate o hanno cominciato a gettare fango su mio padre. Giravano voci, calunnie pronunciate con sicurezza: De Mauro spia del Kgb, De Mauro fascista, uomo del Movimento sociale, De Mauro ricattatore...»
È la strategia tipica dell’omicidio di mafia: far passare la vittima per colpevole, infangarla. «Omicidio di mafia, lei dice. A me non pare proprio. Mio padre sarà stato ucciso da mafiosi, ma è un omicidio di colletti bianchi».
La famiglia De Mauro ha sempre creduto in una sola pista: la pista Mattei, il lavoro che Mauro De Mauro stava facendo, per incarico del regista Franco Rosi, sugli ultimi giorni del presidente dell’Eni in Sicilia. Franca De Mauro ha un ricordo preciso: «In quei giorni di settembre di cinquant’anni fa, forse il 13 o il 14, mio padre venne a prendermi all’aeroporto. Tornavo da Milano. Mi disse che aveva per le mani uno scoop molto grosso, aggiunse che era pericolosissimo e che non vedeva l’ora che tornasse mia madre per parlargliene. Provai a domandare qualcosa di più. È meglio che tu non lo sappia, mi rispose, non voglio coinvolgerti».
Non fu un discorso isolato, una frase buttata lì una volta per tutte. «Ne abbiamo parlato ancora a casa, in un’altra occasione. Papà raccontava del caso Mattei e mia sorella gli chiese brutalmente se il mandante fosse Cefis. A casa parlavamo spesso del lavoro di mio padre. Ma quella fu una conversazione estemporanea, fatta mentre sparecchiavamo, una di quelle conversazioni cui non si presta troppa attenzione. C’era anche mia madre e fu lei a rispondere a Junia, non mio padre: “quando muore il re, è il principe che gli succede, è chiaro”».
Eugenio Cefis fu il successore di Mattei alla guida dell’Eni. Quei discorsi domestici furono riferiti agli inquirenti? «Certo. Ma i carabinieri seguivano la pista droga; la polizia, Boris Giuliano in primis e poi Bruno Contrada, credevano nella pista Mattei. E la polizia ha continuato a lavorarci finché dissero a Giuliano che la sua indagine si doveva considerare chiusa. C’era stato un incontro a Villa Boscogrande, al quale parteciparono i servizi segreti, e si concluse con l’ordine di tagliare corto».
Del commissario Giuliano, che verrà ucciso in un agguato nel bar sotto casa nel luglio 1979, Franca De Mauro parla con molta simpatia: «Aveva un’abitudine: quando cominciava un’indagine, indossava sempre lo stesso abito fino alla conclusione del lavoro. Era un gesto scaramantico. Una volta è venuto a casa nostra con un abito diverso. Lo notai subito, gli dissi: dottore Giuliano, lei ha cambiato vestito. E lui rispose: non si può sempre vincere; a volte si perde».
Ma Giuliano fu un’eccezione, tra inquirenti e apparati che lavoravano in tutt'altra direzione. «Lo Stato ha la responsabilità di avere sviato le indagini, se non di averle affossate, in maniera precisa e decisa. Lo stesso Carlo Alberto dalla Chiesa, quando gli parlavamo di Mattei, ci ha detto: “Si tratterebbe di entrare in urto con lo Stato e io non mi metto in urto con lo Stato”».
Morto ammazzato il commissario Giuliano. Morto ammazzato il generale dalla Chiesa. Cinquant’anni e troppi lutti dopo, che cosa pensa della Sicilia? «Ci sono momenti in cui mi sembra irredimibile e altri in cui mi dà molta speranza. Dopo la morte di Falcone e Borsellino ho pensato che Palermo alzasse la testa, che si compattasse, poi a poco a poco tutto è scivolato nel solito pantano».
E oggi? «Mi dispiace dirlo, in tante cose vedo il degrado. Cose che non c’entrano con la morte di mio padre: la spazzatura buttata agli angoli delle strade, la mascherina portata sul collo, la distanza sociale inesistente, la strafottenza. E però ci sono anche momenti che fanno sperare».
Per esempio? Silenzio: «Non saprei dirle». Poi: «Non voglio essere troppo pessimista».
Mette malinconia, forse, il rito stanco degli anniversari. «Siamo io, il sindaco Orlando, Leone Zingales, l’Ordine dei giornalisti, le autorità, i rappresentanti della stampa e basta».
La città non c’è? «No, del resto non glielo si può neanche chiedere, sono passati tanti anni, è una storia che non si è capita, che non hanno capito. Però devo dire che molta gente si ricorda di mio padre, mi capita che mi chiedano se sono la figlia. Ci sono anche quelli che fanno le domande stupide, mi domandano se so dov’é.»
Resta, fortissimo, il ricordo di un padre amato. «Era un bravo giornalista, scriveva in modo fluido, vivace. Ogni estate noi con la mamma andavamo in Austria, perché mia sorella soffriva di cuore, ci avevano detto che nel Gastein sarebbe stata meglio, e in effetti era così. Con mio padre c’era una ricchissima corrispondenza epistolare. Ricordo le lettere in cui ci descriveva l’8 luglio 1960 (la rivolta popolare contro il governo Tambroni, ndr): erano bellissime, peccato che mia madre non le abbia conservate. Aveva un modo semplice, facile, fluido di raccontare. Ed era una persona generosa, si prendeva grandi cotte per le persone; scherzava con me e mia sorella accusandoci di essere lenzaiuole, di pescare sempre lo stesso pesce, ma anche lui era così: si affezionava».
Un padre presente, anche negli anni in cui il mestiere di giornalista era esigente. «Pranzo e cena, eravamo sempre insieme. Anche se papà tardava a rientrare fino alle tre o alle quattro del pomeriggio, mamma non ci faceva sedere a tavola se lui non c’era. E lì ci parlava di quello che era successo, commentavamo le notizie. E lo leggevamo, naturalmente».
E un giornalista di successo. «Casa nostra era sempre piena di gente, aperta a tutti: venivano corrispondenti stranieri, inviati come Guido Nozzoli, Giampaolo Pansa, Mario Cartoni. Tutte persone che ci furono vicine anche dopo il rapimento di mio padre».
Le inchieste di De Mauro sono celebri: sulla mafia, sui traffici di droga, sui grandi delitti. Ci furono mai minacce? «Solo una volta che mio padre era a Messina per lavoro, mia madre ricevette una telefonata che l’ha spaventata. Mi pare che abbia telefonato a mio padre spaventatissima e lui l’abbia tranquillizzata. Non so se poi per qualche tempo sia stato scortato dalla polizia. È l’unica volta in cui a casa si è respirata un’aria pesante. Se ci sono stati altri episodi, con noi ragazze non ne parlava».
Fino a quel 16 settembre 1970, quando Franca De Mauro fu l’ultima persona a vedere vivo suo padre Mauro, mentre si allontanava in macchina con gli sconosciuti che avevano intimato amuninni. «Guardava fisso davanti a sé. Questo mi aveva preoccupato. Io rientravo con il mio fidanzato, che sarebbe poi diventato mio marito. Gli dissi: “Seguiamo papà”. Ma dovevamo andare a cena fuori, insomma non se ne fece nulla. Abbiamo perso questa occasione».
Rimpiange di non averlo fatto? «Sì, ma ne ho parlato una volta con mio zio Tullio. Ricordo la sua risposta: “Meno male, altrimenti ci sarebbero stati non uno ma tre morti”».
Nelle foto: Bianca Stancanelli; Franca De Mauro alla manifestazione per i cinquant'anni dalla scomparsa del padre; l'auto di Mauro De Mauro ritrovata in via Pietro D'Asaro 25 ore dopo il sequestro
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